La violenza è contraria al volere di Dio
Mentre scrivo, dal campus della West Indiens University, in Giamaica, stanno ancora risuonando le differenti voci che, da tutto il mondo, si sono unite, in questi giorni, per pregare e per riflettere su un unico grande tema: la pace; si è cercato di comprenderla sempre meglio, sia nel suo significato, che nel suo rendersi “possibilità” concreta, per il benessere di tutti. Per la prima volta, nella storia dell’ecumenismo, le Chiese si sono non solo sforzate di scoprire e valorizzare le reciproche differenze, ma hanno iniziato a guardare decisamente “oltre”, insieme, e verso una medesima direzione: l’orizzonte della convivenza umana nel senso dello shalom biblico, che a Kingston ha preso il nome di Pace Giusta.
Non è possibile, in un breve articolo come questo, pretendere di riassumere la ricchezza prodotta, durante un’intensa settimana, dal confronto fra credenti di tutto il mondo che si sono interrogati, hanno riflettuto, raccontato esperienze e disegnato le loro speranze.
Qui a Kingston tutti hanno ritrovato, nei colori dei mille volti, lo specchio di se stessi, cioè quel mondo interiore che, dal buio, si riaccende di luce quando riconosce, negli altri fratelli, lo stesso anelito alla pace che pensavamo di aver soffocato dalle nostre utopie. Qui a Kingston è stata ritrovata la forza, il coraggio di chi non si arrende ad accettare che la creazione di Dio sia violentata da guerre e da distruzioni di ogni tipo, che negano la dignità e il futuro della vita.
I credenti di tutto il mondo stanno affrontando in prima persona il problema della violenza, e finalmente dimostrano nei fatti che non sono più disposti ad accettare, dall’alto, le legittimazioni alla guerra: è la loro fede che alza la voce per denunciare lo scandalo di ogni tipo di violenza.
La Chiesa cattolica, pur non ancora implicata pienamente in questo tipo di confronto corale, è stata presente a Kingston con una piccola delegazione, formata da Rodolfo Valenzuela Núñez, vescovo di Verapaz (Guatemala) e da altre 4 personalità del mondo cattolico. Credo che, tra i quasi 1.000 partecipanti, quelli di confessione cattolica fossero, in totale, una quarantina. È, perciò, degno di nota che, i soli delegati del movimento di Pax Christi, fossero ben 9 (due di questi dall’Italia). Questo ha senz’altro portato una certa visibilità a Pax Christi, portandola ad assumere, senza averlo ricercato, un ruolo di crescente importanza, come espressione di voce cattolica, all’interno del consesso ecumenico mondiale.
La settimana giamaicana, che è stata caratterizzata da assemblee plenarie, preghiere ecumeniche, studi biblici, workshops, seminari e dalle tante occasioni più informali di incontro e di conoscenza, è stato l’evento conclusivo del lungo lavoro del “Decennio per il superamento della violenza” (promosso dal Consiglio Ecumenico delle Chiese) e ha trovato una sintesi etico-teologica in due testi: la Dichiarazione ecumenica sulla Pace Giusta (An Ecumenical Call to Just Peace) e il più voluminoso Companion Document.
L’Assemblea di Kingston non aveva intenzione di produrre nuova documentazione, bensì di accogliere tutto il lavoro finora prodotto e di rilanciarlo a tutte le Chiese. Un gruppo redazionale, al termine dell’Assemblea, ha redatto la bozza di un messaggio conclusivo; su di essa, l’intera assemblea è stata invitata a fare obiezioni, a proporre emendamenti. Tra decine di proposte di modifica (pare vi siano stati più di 60 interventi in assemblea, per suggerire integrazioni o modifiche alla bozza), quella presentata da Pax Christi Italia è stata accolta. Si tratta di una brevissima frase, che rimarrà scolpita tra le altre importanti dichiarazioni di questo messaggio finale, pienamente condiviso con un lunghissimo applauso da tutta l’assemblea, e dunque il testo prodotto ha già iniziato a far parte della storia del movimento ecumenico.
L’integrazione proposta dalla delegazione di Pax Christi Italia fornisce una chiarificazione di fede di non poco conto; mentre nella prima bozza del messaggio la violenza appariva rigettata dalle chiese solo in quanto incapace di risolvere i conflitti (rifacendosi dunque unicamente al criterio dell’utile/non-utile), la nuova frase, proposta e accettata dall’Assemblea di Kingston, fa appello alla ragione profondamente teologica, che riguarda Dio stesso: se è vero che Dio, il quale non usa mai la violenza verso le sue creature, è in sé amore nonviolento, la fede cristiana non deve esitare nel dichiarare e annunciare che “La violenza è contraria al volere di Dio”.
La grande novità che questa aggiunta rappresenta, forse non è immediatamente comprensibile, ma a nostro avviso si tratta, invece, di un passo in avanti di notevole peso e conseguenze.
Quando il Consiglio Ecumenico delle Chiese si riunì per la prima volta ad Amsterdam nel 1948 dichiarò “la guerra” contraria al volere di Dio. Purtroppo, questo consenso di contrarietà alla guerra, è venuto meno, nel corso degli anni, sostituendo il termine “guerra” con altri, diversi nell’apparenza ma non nella sostanza, che, dunque, sotto false spoglie, ne hanno ricreato la legittimazione: la storia costellata di violenza, dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, è lì a dimostrarcelo. Le guerre hanno continuato a imperversare, spesso con il silenzio, se non con l’avallo anche delle istituzioni ecclesiastiche. La violenza organizzata è stata considerata, a certe condizioni, inevitabile e “giusta”.
Nel momento attuale, però, dichiarare insieme, come Chiese e organizzazioni impegnate per la pace, che è la violenza in sé ad essere contro il progetto di Dio, contro la sua volontà, contro la sua stessa essenza, diventa qualcosa di paradossalmente inedito. Il concetto di Dio, in tal modo, viene a confondersi con quello di nonviolenza, creando un solido fondamento teologico, sul quale poter costruire quella teologia della pace che ancora manca, ma che ha iniziato a mostrare, come un neonato, le sue inesauribili potenzialità e possibilità.