ULTIMA TESSERA

Cambia il vento

Dal referendum in poi. Riaffiora l’Italia dei beni comuni. Della consapevolezza del limite. Della collettività.
Guglielmo Minervini (Assessore Regione Puglia)

L’Italia dei beni comuni è tornata. L’ha ricondotta a casa la crisi, quel diffuso e profondo senso di fragilità dinanzi all’imprevedibile, di vulnerabilità dinanzi agli eventi. Se fuori spira violento lo tsunami di un mondo che cambia, allora avverti che l’abitazione delle tue sicurezze private è un cartoccio che può essere spazzato via alla prima folata di vento, in meno di un attimo. In quel momento cominci a cercare un più saldo rifugio comune.
Per oltre trent’anni, un ostracismo l’aveva mandata in esilio. Per tre decenni, come un mantra, abbiamo sentito ripetere, fino a pensarlo meccanicamente, che l’unica equazione possibile era: meno beni comuni uguale più mobilità sociale, più libertà individuale, più sviluppo economico.
Liberarsi dei beni comuni come svincolarsi dagli impicci, sciogliere le legature, eliminare gli ostacoli tra le persone e la loro realizzazione. Insomma, meno beni comuni uguale più felicità.
Più di un’equazione, quasi una promessa salvifica: sprigionate i vostri bisogni individuali e la società diventerà migliore.
Non nasce dal nulla questa escatologia. Le sue radici risalgono a un assioma radicale e ideologico, per questa ragione costitutivo. Recita così: la società non esiste, è un’affermazione convenzionale, esistono solo gli individui.
Prodotto nell’Inghilterra tatcheriana degli anni Ottanta, costituisce l’assunto chiave della gestalt liberista. Da questa mozione di fiducia nell’individualismo estremo nasce la visione che ha orientato le politiche e la politica degli ultimi tre decenni.
Tradotto: fate quello che volete e l’ordine sociale si regolerà automaticamente. Lasciate fare gli individui, la società viene dopo. Se viene. E comunque non importa.
Quindi, niente beni comuni, niente regole. Le regole, infatti, servono per ordinare i comportamenti negli spazi comuni. Senza spazi comuni anche le regole diventano inutili, odiose, insopportabili. Tre lunghi decenni per ripetere che la legalità è un retaggio del passato, l’illegittimo ostruzionismo degli incapaci verso gli intraprendenti, dei conservatori verso gli innovatori, dei parassitari verso gli spiriti liberi.
La traduzione italica, nella versione berlusconiana, non ha fatto altro che replicare, con aggravanti, lo stesso principio politico. Aggiungendo l’ingrediente di quell’allergia alla legalità radicata nel patrimonio genetico della nostra cultura. Una cosa del tipo: fate quello che volete, anche i furbi, uscite pure dal perimetro delle regole, quando necessario per ottenere il successo, l’importante è farla franca.
Tutto inizia con la Milano da bere. Bere la città significa godersela. Arricchirsi e divertirsi. Il mito del potere onnipotente della rendita speculativa e degli affari, alimentato con coca ed escort. Chisseneimporta del saccheggio del territorio, delle risorse naturali, dei servizi pubblici, degli spazi sociali. Milano si può bere come un’infinita colata di cemento.
Poi, da Milano all’Italia il passo è breve.
Il furbo di successo è il vero modello dominante. Nella sua figura si incrociano l’inutilità dei beni comuni e lo sprezzo per le regole. Trasformare un suolo agricolo in una Milano 2 può farti diventare Presidente del Consiglio. Dunque, accaparrarsi una spiaggia pubblica o una sentenza in tribunale senza essere beccato è da grandi. Fregare la buona fede di migliaia di investitori truccando bilanci e facendo un mare di quattrini è da super fighi. La regola, l’unica legittima, è: conta apparire non essere. E la televisione si è piegata a questo trash, trasformandosi nello specchio fedele della regressione nel nostro costume. Conta il reality non la realtà. E se il frullatore del reality ingurgita la vita, l’amore, la morte, non fa nulla. Se vuoi tagliare il traguardo, c’è un prezzo da pagare, bellezza.
Una sbronza interminabile ha sedotto l’Italia. Il suo effetto corrosivo si è sprigionato aggredendo gli essenziali beni naturali, come il territorio, l’ambiente, il paesaggio, e offendendo i fondamentali diritti sociali, come la salute, la scuola, la ricerca, la giustizia. Non basta. Negli ultimi anni, in un’escalation di aggressività, ha cominciato a erodere il senso stesso del patto di convivenza. Un colpo dopo l’altro, come una tarma, ha cominciato a smangiare i pilastri, dalla Costituzione al valore dell’unità nazionale, dallo spirito di accoglienza al sentimento di solidarietà umana. La casa della libertà come invito altrettanto estremo a vivere senza alcun legame con la responsabilità. Fate quello che volete e anche l’Italia sarà un paese migliore. E ciascuno più felice. E basta con i moralismi.
Fino a ieri. Quando è iniziata questa crisi traumatica, irreversibile, globale. Che mette a soqquadro tutto, anche la nostra visione del mondo. Il “fate quello che volete” è giunto al capolinea dei suoi disastri. Ci consegna un pianeta ammalato gravemente nei suoi squilibri ambientali e lacerato da sperequazioni esplosive nei suoi squilibri sociali. E ci lascia tra le mani la vita intossicata dal virus del possesso, del consumo e del conformismo ma svuotata di senso, di coscienza, di pienezza. Persino il santuario dell’economia, devastato dalla deregolazione allegra e selvaggia della finanza facile, traumatizzato dallo sgretolamento del mito della crescita senza fine, ha sempre meno sacerdoti disposti a somministrare ricette magiche e riti salvifici.
Siamo alla svolta. Si riparte di qui: la terra è finita, le risorse sono limitate. Ora lo sappiamo, prima non l’avevamo capito. La sbornia ci aveva fatto credere che tutto era possibile, tutto era illimitatamente riproducibile.
Abitare la consapevolezza del finito e del limite significa rimettere in ordine le idee, ritrovare la misura delle cose, riscoprire il valore essenziale dei beni comuni, ripristinare le regole della convivenza. In altre parole, serve un nuovo patto. Con gli abitanti del pianeta, per ricostruire un comune metro di giustizia. Con le materie essenziali, terra, acqua, aria, per ristabilire un comune metro di sostenibilità.
È la realtà della crisi a rilanciare il nuovo valore dei beni comuni. A riaffermare l’idea che questo spazio condiviso sia necessario per proteggere le persone e costruire il futuro. Se il pianeta ha la febbre perché soffocato dal C02, allora c’è bisogno di una straordinaria alleanza tra tutti i membri della famiglia umana per salvarlo. E salvarci.
La sopravvivenza del pianeta come primo bene comune.
Quello essenziale da cui derivano tutti gli altri. L’impatto con la tutela della sopravvivenza produce un salutare effetto shock. Attiva una pulsione biologica e poi la rielaborazione culturale. Ci aiuta a rimettere, drasticamente e rapidamente, in ordine le priorità. A capire che molte partite della vita, forse le più importanti, si possono giocare solo insieme e non da soli. E che ciascuno non è solo un io ma anche un noi. E che solo nelle sfide comuni abbiamo la possibilità di collocarci come persone (non individui) e afferrare il filo del senso.
No, non esiste solo l’individuo. Esiste anche la comunità. E viene prima dell’individuo. E segue dopo. È il filo della vicenda umana che congiunge le nostre esistenze. È il filo della storia. Cui apparteniamo. E di cui siamo chiamati a essere protagonisti. Perché nel prendere parte alla vicenda comune realizziamo la nostra dimensione più profonda e più alta.
Quella comune unità che si instaura quando senti che la domanda di vita dell’altro riguarda anche te. La chiamiamo responsabilità ed è l’espressione più pregiata della nostra libertà.
Perché nel nuovo mondo dei beni comuni e condivisi, l’esercizio della libertà non consiste nel fare quello che vogliamo ma quello che sentiamo di dovere.

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