Degli uomini e degli dei
Un problema annoso in cinematografia è quello dell’abitudine della distribuzione italiana a tradurre in modo assai arbitrario la titolazione dei film stranieri che circolano sui nostri schermi. Seguendo per lo più criteri di semplificazione o l’attenzione a film già famosi, capita che titoli belli e significativi diventino tutt’altro: così, un elemento ben determinato di comprensione del testo filmico viene sostituito con un altro, meno rispettoso dell’intenzione degli autori, talvolta fuorviante. È anche il caso del nostro “Uomini di Dio”, in originale “Des hommes et des dieux”, degli uomini e degli dei.
Esseri umani e dii: le culture sovente dividono le persone tra di loro, il pensiero religioso può essere elemento ulteriore per scrivere pagine di violenza, di rifiuto, di negazione di umanità. Seguendo la traccia narrativa del film, invece, si può pensare che gli esseri umani abbiano in sé la potenzialità del divino, comunque lo si voglia intendere, e siano, quindi, capaci di esprimere dimensioni di dignità, coraggio, amore, segnando itinerari di comunione, non certo di conflitto. Nella citazione iniziale, un salmo, si ricorda lo status di conformità a Dio degli esseri umani, con l’eternità insita in essa. Ma tutto ciò è vissuto di fronte alla morte, che ha il potere di annullarne l’essenza: la condizione umana non consente mai di dimenticare la nostra finitudine.
Il film narra ciò: i personaggi mostreranno la loro lotta contro la morte, quel che nella nostra esistenza ne traduce il senso in violenza, sopruso, guerra, e che essi affronteranno con gli strumenti – difficili, ma preziosi – della fede in Cristo Signore.
La trama
Algeria, monastero trappista di Notre-Dame de Atlas, a Tibhirine: nel 1996, durante la fase più drammatica dello scontro tra fondamentalisti e regime militare, vengono sequestrati sette monaci. Saranno ritrovati qualche mese dopo, decapitati. Della loro morte, a tuttora, non sono state ancora chiarite pienamente le circostanze: quale delle parti in conflitto poteva trarre vantaggio dalla loro uccisione? Dal libro che raccoglie i loro testamenti spirituali – “Più forti dell’odio”, pubblicato in Italia a cura della Comunità monastica di Bose – il regista francese Xavier Beauvois, insieme a Etienne Comair che firma con lui la sceneggiatura, ha realizzato una delle poche opere recenti che si prende l’onere di mostrarci con le immagini cosa significa rivolgersi a un Dio che, come ci ricorda il Vangelo di Giovanni, nessuno ha mai visto, ma che rimane una prospettiva ineludibile, quanto meno a livello di domanda, dell’esistenza umana. La comunità religiosa vive la sua attività di preghiera, lavoro e prossimità a quella islamica del villaggio vicino, in una dimensione di comunione che si proietta al di là del proselitismo. Ben presto i venti di violenza, che già forte soffiano altrove, giungono anche a Tibhirine: un gruppo di operai slavi viene trucidato dai fondamentalisti. Le autorità algerine insistono perché si chiuda il monastero per l’incolumità dei monaci, gli abitanti dl villaggio chiedono loro di restare, di non abbandonarli.
Il dilemma si definisce ed è lancinante: lo sconcerto si traduce nell’estrema fatica di comprendere il senso di quanto si sta vivendo, cosa Dio possa volere in quel determinato contesto da questi uomini. Una prima consultazione nella comunità mostra due schieramenti, equivalenti per numero, sulla risoluzione di restare o andarsene. La notte di Natale un gruppo di uomini armati si presenta al convento: chiede medicinali, l’intervento di un monaco che è anche medico per curare dei feriti. Frère Christian, il priore, tiene testa al capo del gruppo armato; argomenta con decisione, convince, cita il Corano.
Gli uomini se ne vanno nella notte, scusandosi per aver turbato la festa per la nascita del profeta Issà, Gesù. Ma il clima di violenza non si placa. Si fanno più rilevanti le tensioni con le autorità militari: l’accusa di aiutare i ribelli è seguita da un’irruzione nell’ambulatorio del monastero. Lo sconcerto tra i monaci cresce. Ma quando si tratterà di pronunciarsi nuovamente sull’opportunità di restare, la decisione sarà unanime: non si può andar via. Il destino del gruppo di religiosi si compie, appare inevitabile. Sequestrati durante la notte – soltanto due riusciranno a sottrarsi alla cattura – ci vengono mostrati mentre vengono condotti in marcia sulla pendice di un monte innevato. L’ultima immagine li mostra in colonna, insieme ai loro sequestratori, scomparire in dissolvenza nella luce incerta del paesaggio innevato.
Fedeltà totale
Talvolta è molto importante farsi provocare dalle opinioni altrui su quanto si è visto. Le perplessità più forti sulla vicenda narrata, anche da parte di chi ha molto apprezzato il film sul versante cinematografico dei mezzi espressivi adoperati, risiedevano per alcuni miei amici nella difficoltà di capire perché vivere questa prospettiva di sacrificio di sé, che secondo loro l’autore non illustra con chiarezza, resta indeterminata condannando i personaggi a un masochismo che non si sa tradurre in un sentimento condivisibile. Il mio parere è molto diverso. Xavier Beauvois, che non è credente, si pone la questione della diversità culturale e religiosa e riflette su cosa, in una tradizione, consente comunicazione e, quindi, futuro, e cosa, negando la prima, impedisce il secondo. Il cristianesimo dei monaci è espressione di una fedeltà totale all’umano, che non è soltanto evidenziata nella vicinanza agli “altri”, musulmani del villaggio a cui sono legati dalla fede comune in un Dio che non tollera violenza tra i suoi figli, ma anche dalla fedeltà alla propria umanità, che si evidenzia nella loro libertà. Libertà di non cedere al sopruso che vuol determinare il dove essere (la bellissima conversazione tra Christian e Luc, l’anziano monaco medico: “Io sono sempre stato un uomo libero”), libertà di scegliere di non schierarsi tra fondamentalisti e militari, ma neanche essere neutrali, dato che si resta schierati a fianco dei poveri, libertà di pregare Dio senza che gli errori di chi crede impediscano di aprirsi all’Ulteriore che è stato rivelato. L’assimilazione a Cristo Signore (Luc che si appoggia a un dipinto che Lo raffigura, chiudendo gli occhi) si mostra in questa capacità di vivere liberi, se non dalla paura, nonostante il timore (umanissimo, di perdere la vita). Dio è vicino, anche se non è facile rendersene conto: la Scrittura (in particolare i Salmi) diviene elemento che lascia tracce di comprensione lungo la narrazione, la liturgia si apre a un dono, quello di un senso alle cose, che consola nella prospettiva di perderle. Bellissima la scena della preghiera che sembra impossibile per il passaggio intimidatorio di un elicottero governativo a volo raso sulla cappella: ma ci si stringe assieme cantando la Parola, quella che garantisce che nessun male può davvero colpirci. La sera del sequestro la comunità celebra l’eucarestia, a cui segue una cena di fraternità in cui condividere buon vino e bella musica: una laica ultima cena a cui non può seguire che il Getsemani di un consegnarsi al destino che gli uomini determinano, ma solo in apparenza: quello scelto dai monaci nel rimanere, inermi, è per la vita, donata e, quindi, salvata anche quando sembra perduta; il destino che chi li uccide crederà di determinare in negativo, in realtà è per la loro vita, la vita di tutte le vittime, la cui morte ritrova senso nella Resurrezione del Cristo.
Le parole del testamento spirituale di Frère Christian risuonano sulle immagini finali: il connubio tra natura e umano, nelle inquadrature del piccolo monastero, dice un’armonia fragile, ma possibile, tra Eterno e transitorio. Siamo realtà fragile, ma amata. E questo amore diviene la garanzia che quel frammento prezioso rappresentato da ognuno di noi non sia destinato a perdersi nel nulla.