Le grandi protagoniste

Le banche, le policy, i passi in avanti, i nodi aperti.
Giorgio Beretta e Chiara Bonaiuti

Per valutare correttamente le direttive emesse dalle banche riguardo al settore degli armamenti è necessario considerare due elementi: innanzitutto la pubblicazione e i punti salienti di tali direttive e, in secondo luogo, il reporting da parte degli istituti di credito delle operazioni relative a esportazioni di armamenti italiani. Entrambi questi elementi andrebbero poi confrontati da un lato con i tipi di operazioni di finanziamento all’industria militare e dall’altro con le effettive operazioni assunte per l’export di sistemi di armamenti. Tale analisi merita uno spazio ben più ampio di questo articolo e, in proposito, si veda il volume che abbiamo curato dal titolo “Finanza e armamenti. Istituti di credito e industria militare tra mercato e responsabilità sociale”(Edizioni Plus, Pisa University Press, Pisa 2010, pp. 305) nel quale si possono trovare numerosi approfondimenti.
Per una visione d’insieme può essere qui utile raggruppare le direttive e il reporting delle banche in quattro ampie categorie: in primo luogo le banche che hanno emesso specifiche direttive che escludono le operazioni relative all’esportazione di armamenti e che hanno dato una costante comunicazione in merito a tali operazioni; in secondo luogo quelle che hanno precisamente limitato tali operazioni e hanno svolto un reporting abbastanza accurato; in terzo luogo le banche che, nel corso degli anni, hanno emesso direttive contrastanti con le proprie dichiarazioni precedenti o che presentano aspetti controversi; e infine gli istituti di credito che, pur a fronte di operazioni nel settore, non hanno reso note specifiche direttive e/o non hanno dato alcuna comunicazione in merito a tali operazioni.
Tra le banche italiane che hanno emesso specifiche direttive che hanno portato a escludere sostanzialmente i servizi per l’esportazione di armamenti italiani e che nel corso degli anni hanno puntualmente comunicato nei loro bilanci sociali l’andamento di tali operazioni vanno sicuramente annoverati innanzitutto il gruppo Montepaschi, quindi Intesa Sanpaolo, Banco Popolare e Credito Valtellinese.
Già dall’agosto del 2000, la direzione centrale del gruppo Montepaschi ha emanato alle filiali “precise istruzioni tendenti a evitare, una volta esauriti i flussi di operazioni già perfezionate in precedenza e aventi durata pluriennale, operazioni riconducibili alla produzione e al commercio di armi ai sensi della legge 185/1990”; una direttiva che il gruppo ha chiaramente onorato estendendola nel 2009 anche all’acquisita Banca Antonveneta e dando puntuale e dettagliata comunicazione nei propri bilanci sociali anche di altre operazioni finanziarie relative all’intero settore militare.
Dapprima come Banca Intesa, poi come intero gruppo, Intesa Sanpaolo ha stabilito, con una specifica direttiva pubblicata nel luglio 2007 (cioè a pochi mesi dalla nascita del nuovo gruppo), “la sospensione della partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma, pur consentite dalla legge 185/90”. Il gruppo ha ereditato numerose operazioni sia di banca Sanpaolo, principalmente rivolte ai paesi dell’Unione Europea, sia successivamente della Cassa di Risparmio della Spezia, uscita dal gruppo nel 2011. Nel corso degli anni il gruppo ha progressivamente attuato la propria direttiva tanto che nell’ultimo anno le operazioni specificamente attribuibili a Intesa Sanpaolo non raggiungono il milione di euro: operazioni puntualmente riportate negli ultimi bilanci sociali del gruppo.
Il gruppo Banco Popolare, nato nel luglio 2007, raduna numerose banche popolari italiane. Le operazioni per esportazione di armamenti hanno riguardato, per importi modesti, alcune di esse prima della nascita del gruppo. Il “Bilancio Sociale 2007” segnala “specifiche disposizioni” tra cui quella che “tutte le nuove operazioni proposte al gruppo da e per l’estero, che coinvolgano merci soggette alla dichiarazione di cui alla legge 185/90, vengono declinate totalmente” mentre “vengono gestite soltanto le vecchie operazioni in essere, retaggio delle realtà bancarie conflui-te in Banco Popolare”. Una decisione che, come si evince dalle relazioni ministeriali, il gruppo ha pienamente rispettato portando presto a termine tali operazioni.
Il gruppo Credito Valtellinese (Creval), pur avendo assunto operazioni per l’esportazione di armamenti solo nel biennio 2006-2007, a seguito delle richieste di chiarimenti da parte di numerose associazioni laiche e cattoliche, nel novembre del 2008 ha reso nota sul sito della banca una specifica direttiva nella quale “esprime un orientamento contrario al finanziamento di progetti espressamente dedicati o rivolti alla produzione di armi e sistemi d’arma, nonché alla regolarizzazione di transazioni relative all’import-export di armamenti”. Una decisione che il gruppo sta pienamente onorando.
La Banca Popolare di Milano (BPM) ha fatto la sua comparsa nella relazione governativa per operazioni autorizzate nel 2004 relative alle esportazioni di armamenti italiani. Il fatto ha suscitato una forte presa di posizione di Banca Etica con la quale Bpm ha rapporti di collaborazione e, a seguito di diversi incontri tra rappresentati delle due banche – alcuni dei quali con la partecipazione di rappresentanti di associazioni e Ong clienti di Bpm –, il 6 febbraio 2007, il presidente della Banca Popolare di Milano, Roberto Mazzotta, in una lettera indirizzata al presidente della Banca Etica, Fabio Salviato, confermava la precisa intenzione di proseguire nell’uscita dalle attività riguardanti l’appoggio alle aziende del settore armiero e di voler portare a conclusione anche le specifiche attività di “appoggio alle operazioni di pagamento” alle ditte da parte dei paesi acquirenti di sistemi di armamenti italiani. Una decisione che Banca Popolare di Milano, pur senza aver elaborato una specifica policy, ha sostanzialmente ottemperato negli anni successivi portando comunque a compimento le operazioni pregresse.

Servizi limitati
Sono diverse anche le banche italiane che hanno limitato o circoscritto con una certa precisione i propri servizi alle operazioni per l’export di armamenti e che hanno svolto un reporting abbastanza accurato in materia.
Tra queste va sicuramente annoverato il gruppo UBI Banca che, sorto il 1 aprile 2007 dalla fusione di BPU (Banche Popolari Unite) e Banca Lombarda già nel dicembre del 2007 esplicitava la propria “Politica del settore armamenti” che ne limita l’operatività “alle sole imprese clienti che siano residenti in paesi appartenenti all’Unione Europea, alla Nato o all’Ocse” e a specifiche “tipologie di armi e materiali di armamento”. Per quanto riguarda le operazioni di commercio internazionale di armamenti, UBI Banca ha sviluppato una dettagliata policy facilmente reperibile sul proprio sito che “intende assicurarsi di evitare in ogni caso il coinvolgimento in operazioni dirette verso paesi che siano soggetti a sanzioni internazionali di embargo; siano parti attive in conflitti armati in qualità di aggressori; attuino o tollerino sistematiche o gravi violazioni dei diritti umani; presentino un basso indice di sviluppo umano e livelli di spesa militare incompatibili con una prospettiva di sviluppo sostenibile”. Una policy elaborata recependo anche molte indicazioni delle associazioni della società civile in merito all’applicazione delle direttive anche ai sistemi d’arma non regolamentati dalla legge 185/90 (le cosiddette “armi leggere”) che la banca sta attuando dandone puntuale e sufficientemente dettagliata – seppur non esaustiva – comunicazione nei propri bilanci sociali.

Policy riviste
Tra i gruppi bancari che nel corso degli anni hanno emesso direttive contrastanti con le proprie precedenti dichiarazioni, che presentano aspetti controversi o che non hanno reso note informazioni sufficientemente dettagliate in materia di operazioni per l’esportazione di armamenti, vanno segnalati UniCredit e BNL-BNP Paribas.
Sebbene sia stata tra le banche che per prime avevano dichiarato il proprio “disimpegno” dal settore degli armamenti, il gruppo UniCredit nel 2007 ha annunciato una nuova “Politica di finanziamento del settore difesa” di cui, nel dicembre 2010, ha reso noto le linee principali attraverso una “dichiarazione” pubblicata sul proprio sito. Riguardo alle operazioni per esportazioni di armamenti convenzionali appare un unico criterio restrittivo che concerne i “destinatari o utenti di armi” che “devono essere governi, organizzazioni governative, società statali o organizzazioni sopranazionali” a unica condizione che “forniscano garanzie credibili sul fatto che le armi non siano trasferite a terzi o in altri paesi”. Nonostante le dichiarazioni, UniCredit non ha mai divulgato nei propri Bilanci Sociali i valori e i paesi destinatari delle operazioni svolte relative all’esportazione di armamenti: nel maggio del 2010, per la prima volta, ha però pubblicato sul proprio portale una breve nota di “Riepilogo dei dati relativi alle autorizzazioni rilasciate per esportazioni definitive riportate nella Relazione al Parlamento (2007- 2010)” nella quale afferma che “per il 2010, nonostante la crescita registrata, è importante sottolineare che il totale di € 297,5 milioni è imputabile per € 261,5 milioni (l’88%) a un’unica transazione per un sistema satellitare di comunicazioni destinato al Ministero della Difesa in Turchia”. Sebbene sia evidente la decisione del gruppo di autolimitare la propria operatività nel settore dell’industria militare anche per le controllate all’estero, UniCredit Group, per rendere attendibili le proprie recenti dichiarazioni, dovrebbe pubblicare integralmente la nuova policy e impegnarsi in un rigoroso e dettagliato reporting delle proprie operazioni nel settore sia in Italia che all’estero, soprattutto per quelle assunte nei paesi dell’Est europeo dove il gruppo è ampiamente presente.
La Banca Nazionale del Lavoro (BNL) dal 2003 ha reso pubblica “la decisione di ridurre progressivamente il proprio coinvolgimento nelle attività finanziarie legate al commercio di armamenti” impegnandosi a “limitare le proprie attività relative alle operazioni di esportazione e importazione di materiale d’armamento unicamente a quelle verso paesi UE e NATO nell’ambito delle rispettive politiche di difesa e sicurezza”. Il gruppo francese BNP Paribas – in cui la BNL è stata incorporata nel febbraio del 2006 – non presenta, invece, alcuna specifica limitazione in materia rendendo possibile, quindi, un “doppio standard” anche per quanto riguarda le operazioni svolte in Italia dal gruppo: non appare infatti altrimenti giustificata l’ampia attività della BNP Paribas – Succursale Italia che negli ultimi due anni ha assunto operazioni per l’export militare per un totale di oltre 1.666 milioni di euro a fronte dei poco più di 197 milioni di euro autorizzati alla BNL. Il gruppo BNP Paribas – come anche richiesto da numerose associazioni della società civile con una specifica missiva (cfr. “La regina delle banche armate” di Roberto Cuda, in Mosaico di pace giugno 2011, ndr) – deve quindi con urgenza chiarire la propria posizione rispetto alle operazioni nel settore sia per quanto riguarda quelle assunte in Italia che quelle in altri paesi in cui è attivo e specialmente in Francia.

In attesa
Tra gli istituti di credito che, pur a fronte di operazioni nel settore, non hanno reso note specifiche direttive e/o non hanno dato alcuna comunicazione in merito vanno annoverati alcuni gruppi italiani di minor rilevanza sulla scena finanziaria e anche per attività nel settore. Si tratta, comunque, di banche e gruppi che da tempo sostengono queste operazioni e che in taluni casi mostrano un certo attivismo. Tra questi va annoverato il gruppo BPER che, oltre alla capogruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna anche con il Banco di Sardegna e in misura minore con la Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila nel settennio dal 2004 al 2010 ha svolto complessivamente operazioni per quasi 64 milioni di euro. Di recente, il gruppo ha affermato di aver deliberato lo scorso ottobre le linee portanti di una direttiva in materia che “ha l’ambizione di essere allineata, se non migliore, rispetto alle best practice correnti”.
Un altro gruppo bancario è il Gruppo Banca Carige e soprattutto la capogruppo Cassa di Risparmio di Genova e Imperia che, nel triennio 2008-2010, ha assunto operazioni per oltre 35 milioni di euro. Sul sito del gruppo – settima banca italiana per capitalizzazione – nel quale appare un “Codice Etico” e il “Bilancio Sociale” di diversi anni non si rintraccia, però, alcuna direttiva in merito al settore degli armamenti che, come noto, ha importanti industrie in Liguria.
Un caso a sé è rappresentato dalla Cassa di Risparmio della Spezia: la banca, che nel 2011 è passata dal gruppo Intesa Sanpaolo a Crédit Agricole, dal 2001 ha assunto operazioni per l’export militare per oltre 395 milioni di euro. La recente incorporazione nel gruppo francese – di cui fanno parte anche le banche italiane Cariparma e FriulAdria – presenta un’opportunità per chiedere alla banca di definire le propria attività nel settore: al riguardo va segnalata una recente direttiva del gruppo Crédit Agricole per il settore della difesa, che non abbiamo qui lo spazio per analizzare, ma che rappresenta una novità di sicuro interesse sia per le dimensioni internazionali del gruppo bancario (il settore Corporate è presente in 58 paesi con una forte attività nel Medio Oriente e in Asia) sia, soprattutto, perché si tratta di uno dei primi gruppi esteri ad aver definito una policy sufficientemente dettagliata riguardo al settore militare e degli armamenti convenzionali.

Per concludere, per ripartire
Lo specifico ambito dei servizi all’esportazione di armamenti non esaurisce tutta la più ampia gamma di operazioni finanziarie che gli istituti di credito hanno in corso con le industrie militari: si va dalla partecipazione all’azionariato delle industrie ai finanziamenti diretti a specifici progetti, dalla collocazione di titoli e azioni delle aziende militari alla concessione di fidi e altri servizi bancari. Esso rappresenta piuttosto la punta di un iceberg, la cui parte più consistente rimane sommersa e di difficile rilevazione. La campagna di pressione alle “banche armate” ha avuto il merito di aprire uno squarcio su queste attività indicando anche le incongruenze tra i servizi offerti dalle banche all’esportazione di materiali militari e altre loro attività come il sostegno al microcredito o a specifici progetti di sviluppo talvolta negli stessi paesi in cui le stesse banche avevano in corso operazioni a favore dell’industria militare. Lo ha fatto sulla base di dati certi e inconfutabili come quello offerti dalla Relazione annuale della Presidenza del Consiglio grazie alla legge 185 del 1990. Con l’entrata in carica dell’attuale governo Berlusconi, una consistente parte di assoluta rilevanza per conoscere con certezza i paesi destinatari delle operazioni svolte dalle banche è stata sottratta dalla relazione annuale: un fatto prontamente e ripetutamente denunciato dalle tre riviste promotrici della campagna anche per mezzo di lettere ufficiali ai diretti referenti politici che, però, finora, non hanno ricevuto risposta.
In questo contesto appare ancor più necessario rilanciare la campagna chiedendo innanzitutto alle realtà del mondo pacifista e missionario e più in generale alle associazioni della società civile, laiche e religiose, attivamente impegnate nella promozione della pace e della solidarietà tra i popoli un ulteriore momento di verifica e di trasparenza per quanto riguarda le banche delle quali si servono per le proprie attività. Se è, infatti, positivo che numerose associazioni usufruiscano sempre più del circuito di Banca Etica, è altrettanto vero che negli anni recenti sono state accettate da parte di importanti associazioni anche del mondo cattolico talune forme di sostegno alle proprie attività promosse non solo da banche ampiamente attive nel settore militare, ma anche da industrie e aziende produttrici di armamenti.
È, inoltre, necessario, alla luce dei risultati ottenuti, continuare a tenere alta la pressione sugli istituti di credito sia per valorizzare alcune buone pratiche sempre esposte al rischio di regressione, sia per contribuire a migliorarle, sia per chiedere agli istituti di credito italiani una più precisa definizione delle proprie direttive e delle operazioni svolte in merito al commercio di armamenti. Per quanto riguarda le industrie militari e le stesse banche estere operative nel settore, andrebbe anche valutata la possibilità di intraprendere percorsi di “azionariato critico” così come alcune associazioni stanno facendo nei confronti di alcune importanti industrie del settore energetico italiano come ENI e ENEL: un’azione simile nei confronti di Finmeccanica potrebbe almeno servire a non vedere reiterate impunemente talune affermazioni di “responsabilità sociale” circa l’esportazione di armamenti contenute negli ultimi rapporti della maggiore azienda del settore militare italiano.
Vanno, inoltre, riprese le iniziative sugli Enti locali per fare in modo che nell’affidamento del servizio di tesoreria vengano inseriti specifici punti riguardo ai servizi che una banca offre al comparto militare.
L’esperienza di oltre dieci anni di campagna suggerisce infine che – in questo settore così come per molte altre – molto dipende non tanto da un gran numero di aderenti, ma da un gruppo di persone, anche poche ma motivate, che si attivano con dedizione, intelligenza e costanza sul proprio territorio per promuove iniziative magari non eclatanti ma di effettiva consistenza. Alla luce delle direttive emesse dagli istituti di credito può risultare di un certo interesse promuovere momenti di dibattito e confronto pubblico tra gli esponenti della campagna e i rappresentanti del settore delle banche italiane nel quale gli istituti di credito possano illustrare le proprie posizioni e direttive: per dare maggior ampiezza al dibattito si possono coinvolgere studiosi del settore, professori universitari, giornalisti ecc..
Ciò che davvero conta è non limitare questi argomenti all’ambito degli “addetti ai lavori” ma servirsi della loro competenza per aprire un dibattito e un confronto pubblico su questi argomenti che ci toccano da vicino. Come segnalava, infatti, con chiarezza fin dall’inizio l’appello della campagna “crediamo sia moralmente doveroso chiederci come e dove investono gli istituti bancari. Se è vero che il sistema economico, le “strutture di peccato” si basano sul consenso dei singoli, è importante riscoprire le responsabilità che ognuno di noi ha nell’appoggiare più o meno esplicitamente tale sistema. Non possiamo accettare il criterio che, avendo dei soldi, li dobbiamo far fruttare al meglio senza interrogarci sul modo”. Mantenere aperto uno squarcio su questi temi spetta, in fin dei conti, solo a noi.

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