PAROLA A RISCHIO

Il dovere di giudicare

L’invito evangelico a non condannare non giustifica l’indifferenza rispetto alla “cosa pubblica” in cui spesso ci rifugiamo.
Roberto Mancini (Professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata)

Dodici bambini e due donne assassinati in un bombardamento effettuato da aerei della Nato in Afghanistan. Il comando responsabile di questo crimine chiude la questione dichiarando che si è trattato di un errore. È una notizia del 29 maggio scorso. Una tra le mille orribili, mortificanti per l’umanità intera. Da uno sguardo limpido, tutto questo sarebbe subito giudicato inaccettabile e al giudizio seguirebbe l’azione per revocare ogni scelta o comportamento o politica che sia responsabile di questi lutti e sofferenze. Invece, episodi del genere scorrono via senza investire le emozioni, i sentimenti, il giudizio critico, la facoltà di agire responsabilmente. È tutto ovvio, normale. Ma che cosa stanno a fare le truppe occidentali in Afghanistan? E che senso hanno i bombardamenti che le stesse forze armate continuano ad attuare in Libia? Perché accettare in silenzio che le democrazie si riducano a distinguersi dalle dittature solo perché le prime, nel fare guerra e produrre vittime, dicono che svolgono operazioni umanitarie?
Un’interpretazione completamente distorta dell’invito evangelico a non giudicare porta all’abitudine di farsi i fatti propri, di giustificare i poteri del mondo, di non considerare la politica e la storia come terreni di discernimento tra il bene e il male in modo da attivare comportamenti alternativi. Così, spesso, l’esito è che si rovescia la giusta prospettiva: mentre bisogna giudicare lucidamente logiche e comportamenti senza negare alle persone la misericordia, prevale l’abitudine a lasciar correre qualsiasi scelta o forma d’azione e, se proprio viene la voglia di soppesare e di condannare, allora si giudicano le persone. Un atteggiamento del genere, perpetuato negli anni, è gravemente diseducativo e coltiva generazioni di cittadini disorientati, acritici, affetti da dissonanza cognitiva, facilmente manipolabili. Una simile situazione è ormai ritenuta cronica, ovvia. Ne è prova, ad esempio, il fatto che, nel dibattito sui risultati delle recenti elezioni amministrative, quasi tutti i commentatori non facevano affatto riferimento alla capacità degli elettori di valutare i comportamenti concreti e il modo di amministrare; si riferivano piuttosto al fatto che l’uno o l’altro schieramento avessero indovinato o sbagliato la campagna elettorale.
Come dire: non conta quello che fai, conta solo come promuovi la tua immagine all’opinione pubblica. Quando un paese è ridotto così, tutto il peggio diventa possibile. Ed è chiaro che anche i segni di risveglio e le svolte che prefigurano un’alternativa restano molto fragili se le radici della cittadinanza critica e della democrazia sono tanto esigue già sul piano della percezione delle cose, della conoscenza, del discernimento.

Incompatibilità
Una svolta vera va coltivata giorno per giorno, nella vita familiare e nell’azione educativa della scuola, nel modo di fare informazione e nel vivificare, territorio per territorio, luoghi e canali di confronto tra i cittadini. Perché la facoltà di conoscere, di discernere, di dialogare, di avere tutto il riguardo per le persone e nessun riguardo per le logiche sbagliate si forma in ciascuno solo attraverso l’esperienza quotidiana. Se l’ordinamento costituzionale e democratico in Italia deve avere futuro sviluppo, allora le istituzioni politiche, i sindacati, le associazioni e il mondo del volontariato hanno il compito di curare tutte le fonti spirituali, culturali ed etiche di affinamento del giudizio critico dei cittadini.
La Chiesa, da parte sua, non può eludere il proprio dovere di contribuire al discernimento che promuove il bene comune e mette in guardia da qualunque tendenza ideo-logica e pratica che possa comprometterlo. Non può isolare qualche questione ritenuta più “sensibile” e lasciar correre il resto. E, ancor prima del problema di individuare i temi rilevanti del suo giudizio pubblico, si pone il problema del metodo. La gerarchia ecclesiale non può detenere il monopolio del discernimento della vita della società. Tutto ciò che è veramente ecclesiale è comunitario e deriva tale qualità strutturale dall’esperienza della comunione rigenerata ogni volta dall’ascolto comune della Parola di Dio.
In mancanza di questa dinamica fisiologica, e senza che si sviluppi un dialogo tra i credenti finalizzato al loro esercizio del pensiero critico al servizio della società intera, assistiamo a un alternarsi confuso di prese di posizione e di silenzi, per le ragioni più varie, che non aiuta la crescita della capacità di giudizio di un popolo intero e della stessa comunità ecclesiale. Cito solo l’esempio più clamoroso: molti cattolici italiani, e talvolta interi movimenti bene organizzati nel nome dell’identità cristiana e dei suoi “valori”, non hanno ancora saputo rendersi conto del fatto che il Vangelo e il berlusconismo sono semplicemente incompatibili.
Come si fa a non vedere? Come si può evitare di chiamare le cose con il loro nome? Come si fa a tacere dinanzi alle iniquità o addirittura a farle passare per provvedimenti di buon governo ?
L’unica via per uscire da questa ambiguità e da questa elusione del dovere di discernere sta nella rigenerazione comunitaria della Chiesa. Non basta affermare in linea di principio che essa è un popolo. Occorre rivitalizzare la vita ecclesiale ripartendo dalle Chiese locali, dalle diocesi e dalle parrocchie, in modo che siano comunità fraterne e sororali di credenti riuniti attorno alla Parola di Dio. Disposti non solo a leggerla, ma a farsene leggere e rispecchiare. Disposti a fidarsene e a seguirla. E disposti a leggere nel contempo la vita comune, le vicende della storia, le cause delle ingiustizie e le tendenze di liberazione. Confrontarsi con la Parola, rinunciando a capire e a giudicare le vicende storiche, oppure parteggiare per questo o per quello nella vita politica smarrendo il senso del Vangelo e la sua prospettiva: ecco due percorsi distorti e senza alcuno sbocco positivo. Le Chiese locali devono tenere insieme le due letture e sostenere così la lucidità e l’esercizio della responsabilità storica dell’intera comunità ecclesiale.
Soltanto così, la Chiesa potrà riuscire, senza mai ledere la ricchezza del pluralismo di prospettive tipica della libertà evangelica, a trovare un orientamento chiaro rispetto a che cosa è bene per l’umanità e a che cosa tradisce questo bene.

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