Dieci anni dopo
Cassandra. Difficile un nome più efficace per la mostra che ha accompagnato le giornate di Genova 2011. Una mostra che srotola con parole e immagini gli avvenimenti degli ultimi dieci anni. Quelli che, temuti e denunciati come pericolosa deriva dell’attuale modello imperante, puntualmente, uno dopo l’altro, testimoniano quanto un mondo diverso, possibile o meno, sia più che mai urgente e necessario.
E, infatti, “Genova 2001 – 2011: loro la crisi, noi la speranza”, non è stato solo uno slogan, ma un susseguirsi di appuntamenti che, per un intero mese, ha consentito di analizzare, discutere, costruire la possibilità di continuare l’impegno, la lotta e la resistenza.
Ma che ha anche consentito di ricordare le vittime (Carlo Giuliani e lo spropositato numero di persone violentemente picchiate, minacciate, ingiuriate, degradate e umiliate della Diaz, di Bolzaneto, del corteo che pacificamente manifestava) e di continuare a chiamare per nome il profondo attacco inferto in quei giorni alla democrazia. Che urla per essere riconosciuto: pubblicamente, politicamente e storicamente, quale premessa indispensabile per una riparazione, per una possibile riconciliazione sociale.
Questo riconoscimento non c’è stato – e non si intravede neppure all’orizzonte: perché nonostante la tenacia e la perseveranza delle vittime e dei loro avvocati, nonostante alcune condanne degli ufficiali delle Forze dell’Ordine (De Gennaro incluso) nessuno di loro è stato rimosso o rallentato nella propria carriera, ma al contrario ha spesso avuto promozioni. Non si è vista , inoltre, alcuna presa di distanza politica né dal centro destra né dal centro sinistra, in questo caso e come spesso accade, assolutamente bi-partisan anche chi è stato condannato per aver indotto i propri sottoposti alla falsa testimonianza o alla fabbricazione di false prove è ancora al proprio posto e non è stato sottoposto a misure cautelari durante il processo). Anzi, pare che lo stigma sociale che sempre più “marchia” chi manifesta per i propri diritti costringa ogni discussione solo nella sfera dei possibili scontri, la renda avulsa dai contenuti e, “legittimamente”, consenta di “picchiare duro”. é quanto accaduto con le manganellate ai manifestanti dell’Aquila a Roma che chiedevano la ricostruzione della propria città, e con il gas CS, bandito definitivamente nelle guerre internazionali dalla convenzione sulle armi chimiche, copiosamente utilizzato in Val di Susa.
Tante analisi sono state fatte in questo mese genovese, e tanti sono stati gli ambiti della discussione: dalla crisi italiana alle lotte di liberazione del Maghreb/Mashreq; dalla denuncia della precarietà alla necessità di difendere i contratti collettivi nazionali di lavoro; dal rilancio del welfare alla necessità delle riduzioni delle spese militari e di un’autentica riconversione; dalla difesa dei diritti dei migranti alla denuncia dei processi di mercificazione e privatizzazione della scuola; dai percorsi di ripubblicizazzione dell’acqua a una “carta universale dei beni comuni”, e così via.
Impossibile riassumere tanta ricchezza in poche righe.
Mi piace, però, consegnarvi la luce delle fiaccole che da Piazza De Ferrari, allora “zona rossa”, arriva fino alla Diaz la sera del 22 luglio, i colori e le bandiere del corteo che si snoda per Genova il pomeriggio del 24 luglio, e alcuni ricordi dell’intervento di Francoise Houtart, sacerdote, teologo e intellettuale, sul futuro del Movimento Altermondialista. Sostiene Houtart che bisogna prender atto delle contraddizioni della modernità, che ha consentito uno sviluppo impensabile prima, ma al tempo stesso è stata premessa della nascita del capitalismo che crede in un crescita infinita, quasi che la terra e l’uomo non abbiano limiti. Che produce disparità, mercifica, sacrifica qualsiasi cosa per il profitto. è questo che va profondamente messo in discussione, alla radice: non si può porre dei limiti a qualcosa che per sua natura deve sempre crescere e spingersi oltre. Meglio allora cambiare per intero il paradigma. Rifacendosi a quel “buen vivir” in cui non è l’economia l’unica cosa capace di dare valore. Attraverso connessioni, reti, incontri internazionali. Attraverso la creazione e il consolidamento di un forum mondiale che, tra le tante cose da fare, possa iniziare a declinare una carta universale dei beni comuni. Con la consapevolezza, mi sento di aggiungere, che non sarà cosa facile – nessuno ce la regalerà – e nemmeno indolore. Ma che sarà, forse, meno devastante se ritroveremo la capacità di indignarci e di opporci attivamente all’ingiustizia. A partire da quella in cui siamo immersi e che troppo spesso tendiamo a considerare “normale”.