GIUSTIZIA AMBIENTALE

Fuori dal mercato

Dall’acqua in poi: la questione dei beni comuni e la loro possibile e necessaria difesa.
Claudio Giambelli

Agli amici che in questi giorni mi dicono: “Adesso che abbiamo vinto i referendum, dobbiamo fare una lista dei beni comuni”, normalmente non rispondo, perché non sono convinto.
Non che non ci abbiamo già provato.
Nel dicembre 2010, il nostro comitato spontaneo, che si era dedicato dalla primavera precedente alla raccolta delle firme per i referendum, si era consolidato nel Comitato Roma 16 per i Beni Comuni, con tanto di statuto, nel quale è riportato: “Esempi di beni comuni sono: acqua, lavoro, pace, solidarietà, costituzione, cultura, conoscenza, etere, informazione, territorio, ambiente, paesaggio, diritti del pianeta, giustizia, umanità, diritti umani, parità di genere, istruzione, energia, diritto alla salute, qualità dell’aria, acqua e suolo, il silenzio, sicurezza del cittadino, trasporto pubblico, ecc.”.
Insomma una lista, praticamente illimitata, dei temi ambientali e sociali su cui sogniamo una rivoluzione. Non sono convinto che fare una lista sia il passo iniziale giusto perché, secondo me, è sterile, non porta a nulla se non a discussioni infinite su quale è quello prioritario e su come bisognerebbe cambiarlo per trasformare la realtà.
Anche nel caso dei referendum per l’acqua, il definire la campagna referendaria finale : “2 sì per l’acqua bene comune” è stato l’ultimo passo concettuale e comunicativo, intorno a dicembre 2010, di un percorso che, durante la raccolta delle firme, parlava alla gente di referendum per l’acqua pubblica: fuori l’acqua dal mercato ! Fuori i profitti dall’acqua ! Cioè, esprimeva dei concetti di merito sulla gestione dell’acqua, infine condensati nello slogan vincente “2 sì per l’acqua bene comune”.

Mi prendo cura…
Ormai immerso nello spirito di questo slogan, durante una manifestazione che avevamo organizzato, insieme alle tante altre migliaia nei territori italiani, gridavo nel megafono “2 Sì per l’acqua bene comune !” e mi si avvicinò un attivista politico locale che mi consigliò di usare il termine “acqua pubblica” forse preoccupato che la gente non capisse quello che volevamo.
Continuai a usare lo slogan “acqua bene comune”, ma la sua osservazione mi fece molto riflettere.
Ho compreso che il termine “bene comune” è qualcosa di più ampio di “pubblico”. Pensiamo ad esempio ai giardini pubblici vicini a casa. Sono pubblici, in quanto chiunque può andarci, ma non sono di nessuno: qualcuno li rispetta, altri li insozzano senza preoccuparsene, perché, apparentemente, non sono di nessuno.
Il termine “pubblico” non rende l’idea: bene comune sì, perché parliamo di un bene, percepito come fondamentale e il termine comune richiama la necessità di cura partecipata della comunità di prossimità.
Così, ho compreso meglio quanto espresso nel libro scritto a più mani da autori quali Paolo Cacciari, Fausto Bertinotti, Giuseppe De Marzo, che, in buona sintesi, parlano di beni comuni come un processo di riconoscimento e cura sociale dei doni naturali e dei lasciti dell’operosità creativa delle generazioni precedenti che sono fondamentali per la vita esistenziale e culturale dell’umanità sulla terra e per la sua felicità, benessere e salute psico-fisica.
Mi piacciono sia il termine processo, sia i termini ri-conoscimento e cura.
Il termine processo perché indica la possibilità di un percorso culturale ripetibile ciclicamente nel tempo e nello spazio; non un percorso lineare che si fa una volta per tutte, da un punto iniziale a un punto finale, poi dogmaticamente congelato.
Il termine ri-conoscimento, perché segnala un risveglio di consapevolezze, addormentate o obnubilate da propagande ipnotiche, che riguardano valori, forse anche ancestrali, sicuramente fondamentali per la vita dell’uomo (non di solo pane vive l’uomo); verità/valori noti da sempre dalla sapienza umana. Insomma, una specie di processo culturale evolutivo che ci riconduce alla riscoperta del… paradiso terrestre, in termini nuovi.

Verso la decrescita
Il termine cura perché richiama l’“I care” di don Milani, cioè un’azione proattiva, in dichiarata contrapposizione al “Me ne frego” fascista di tipo individualista.
A questo punto mi è venuta in mente una commovente segnalazione di un’attivista del popolo dell’acqua che riporto: “Sulla Valtravaglia, provincia di Varese, una doccia altissima d’acqua precipita da più di trecento metri a picco. Sotto, a poca distanza, c’è una chiesa romanica del 1000, si chiama Santa Maria dell’Acqua Chiara e sul transetto c’è scritto in un latino dialettale: ‘Sacra è l’acqua di questa fonte. Rispettala, tienila da conto, offrila a chi ha sete e benedici pure i nemici tuoi ma non trarre mai vantaggio da essa: è sacrilegio, poiché se ne trai profitto Dio si sente offeso’”.
Ecco, che l’acqua non potesse essere sfruttata economicamente si sapeva da sempre. Come è potuto accadere che abbiamo accettato la privatizzazione di fatto dell’acqua? E di tanti altri beni comuni?
Qui probabilmente bisogna riparlare dell’immaginario collettivo. La realtà dell’umanità non è solo quella che apparentemente vediamo; ma è costituita anche dai suoi sogni a occhi aperti: chi riesce a orientare questi sogni a livello collettivo ha un potere enorme.
“Solo la trasformazione dell’immaginario può rompere gli schemi interpretativi esistenti e farci rinominare la realtà”, dice Luciana Percovich, in un articolo su Noi Donne di giugno 2011. Nel concetto della decrescita, ancor prima delle riflessioni su come tradurlo in azioni socio-economiche, c’è l’esigenza della “decolonizzazione dell’immaginario collettivo”, quell’immaginario, per intenderci con un esempio, che ci ha convinto che il pubblico è brutto e il privato è bello.
E mi aggancio decisamente alle considerazioni riportate nell’articolo di Noi Donne, perché le trovo estremamente attinenti all’argomento: “L’immaginario, infatti, dà forma alla dimensione più profonda dell’umano, dove trovano risposta le domande fondamentali sul senso della vita e orienta, spesso inconsapevolmente, le nostre azioni”.
Molto interessanti anche le considerazioni sulle società matriarcali e patriarcali. “I sistemi patriarcali, per riuscire a imporsi, hanno dovuto sopprimere o capovolgere la sapienza millenaria delle società matrilineari, hanno snaturato le simbologie del passato, colonizzandole con valori diversi, basati sulla lotta contro la madre e contro la natura, viste solo come risorse da dominare e sfruttare… La sapienza dei primi miti racconta come la creazione non sia un gesto avvenuto all’inizio del tempo, una volta per tutte, ma che il principio di creazione viene rimesso in moto tutte le volte che, attivamente, l’umanità riesce a stabilire rapporti di equilibrio anziché di sopraffazione o sfruttamento… La Dea Madre rappresentava proprio questo principio regolatore e ciclico, non era tanto il femminile inteso come corpo, ma soprattutto come Colei che dà le regole, le forme attraverso cui una società possa svilupparsi in armonia… Le società del passato possono costituire un modello non nella riproposizione di un ordine sociale estinto, ma contribuendo a spezzare quell’immaginario negativo che è stato loro calato addosso e riportando alla luce l’idea dell’equilibrio, tra umani e natura e tra esseri viventi tout court”.
A questo punto, il lettore potrà ben capire l’emozione che ho provato rileggendo le parole di Alex Zanotelli che assumono un significato ancora più profondo. Dice Alex: “Quello che è avvenuto in questo Paese il 12 e 13 giugno, è un miracolo! È la vittoria della ‘madre’, l’acqua, la madre di tutta la vita su questo pianeta”.

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