Gettare il seme
Per cogliere le ragioni e le radici della rivoluzione nonviolenta.
È una vera e propria rivoluzione nonviolenta quella che si sta manifestando nel sud d’Europa e nel nord d’Africa. Si tratta di un grande movimento di popolo che acquista molteplici sfaccettature tra un Paese e l’altro, ma che si caratterizza per una serie di elementi di fondo: da un lato, la richiesta di libertà e democrazia e, dall’altro, l’ausilio di strumenti di informazione estremamente moderni. Internet, i telefonini e i social network mettono così in secondo piano i media tradizionali, visti quasi come un ostacolo se non quasi come un avversario da combattere, seppur con mezzi nonviolenti. I mezzi di “navigazione” informatica sono, dunque, i veicoli che i giovani utilizzano per costruire il loro futuro, ma spesso è sui barconi in navigazione sul Mediterraneo che si incagliano i loro sogni, quando i giovani scelgono di fare la scelta radicale di abbandonare i loro Paesi.
Sono stati questi i grandi temi d’attualità al centro dell’attenzione del convegno “La lunga marcia della nonviolenza svoltosi dal 17 al 19 giugno. L’iniziativa – organizzata dal Centro per la Pace del Comune di Bolzano e promossa anche dal Movimento Nonviolento, dalla Tavola per la Pace e da Pax Christi – ha portato a Bolzano numerosi esponenti del pacifismo nazionale per un denso programma di tavole rotonde, momenti di riflessione e testimonianze. Sullo sfondo 50 anni di impegno per la pace e una figura chiave, quella di Aldo Capitini, filosofo politico antifascista ed educatore italiano che, di fatto, diede il via in Italia al movimento nonviolento e pacifista. Una figura – quella di Capitini – apparsa profetica a più riprese nella storia del nostro Paese e in questi giorni in grado di essere, per molti aspetti, una sorta di “faro”, un punto di riferimento obbligato sia per comprendere quanto sta avvenendo in Europa e nel Nord Africa che per orientare il modo con cui il movimento per la pace può riprendere il suo ruolo di protagonista, dopo le grandi mobilitazioni mondiali promosse nei primi anni del nuovo secolo in occasione delle guerre in Afghanistan e Iraq.
A Capitini, ideatore della marcia per la pace Perugia Assisi, che compie quest’anno mezzo secolo di vita, la casa editrice Il Margine ha recentemente dedicato un libro intitolato “Aldo Capitini. Le radici della nonviolenza”, scritto da Fabrizio Truini che abbiamo avuto occasione di incontrare.
Fabrizio Truini, com’è avvenuto il suo primo incontro con il pensiero di Capitini e quand’è nata l’idea di scrivere il libro?
Rimasi affascinato da questa figura quando lessi la prefazione di Bobbio a “Il potere è di tutti”, opera postuma di Capitini. Negli anni Ottanta, padre Balducci ideò l’enciclopedia della pace nella collana “I Maestri” e allora gli proposi di scrivere su Capitini. Venni, dunque, incaricato di realizzare una biografia ragionata, ricollocando Capitini all’interno della sua storia personale e della storia d’Italia.
A 50 anni dalla prima marcia della pace Il Margine mi ha, quindi, chiesto di realizzare una nuova edizione del libro, limando alcune cose, facendo una nuova prefazione e rivedendo le conclusioni, aggiungendo anche un capitolo sull’educazione che, nella prima edizione, non ero riuscito a pubblicare. Capitini, infatti, era un grande pedagogo: per lui la nonviolenza doveva essere un metodo da insegnare soprattutto ai più giovani. Ma non solo.
In Italia il personaggio Capitini non è molto noto, ma il suo messaggio è indubbiamente di estrema attualità. Ad esempio, Capitini fu uno dei primi fautori, a livello nazionale, della democrazia diretta. Poi molto significativa è stata la sua scelta di rifiutare il coinvolgimento diretto in un partito politico.
La scelta di Capitini di rimanere estraneo ai partiti è rimasta un mistero che va ricondotto alla sfera delle scelte personali. Ugo La Malfa andò a Perugia e cercò di coinvolgerlo nel Partito D’Azione per farlo eleggere nella Costituente, dove avrebbe potuto dare un grande apporto. Capitini si ritrasse e disse: “Io preferisco la nebulosa al firmamento”. In questo senso non seguì il suo maestro Gandhi che, invece, fondò il Partito del Congresso e fu un uomo politico che portò all’indipendenza l’India.
Quella di Capitini fu una decisione consapevole. Era convinto che il suo messaggio non doveva incidere nell’immediatezza della politica del suo tempo.
Lo stesso atteggiamento Capitini lo ebbe anche nei confronti della Resistenza...
Capitini aveva una concezione molto personale anche del socialismo. Il suo era un socialismo nonviolento. Quando nel 1948 lo chiamarono a Roma per commemorare Gandhi – e lui conosceva bene Ingrao e Bufalini – alla fine raccontò che ricevette in quel contesto molti complimenti, ma anche molti “sorrisi”. Capì benissimo che era rimasto solo. Fece la scelta di concentrarsi sulla traduzione del messaggio gandhiano, politico e religioso, della nonviolenza nelle categorie e nei concetti della cultura occidentale.
Vi è poi il tema cruciale del rapporto, tormentato, che Capitini ebbe con la Chiesa.
Fu una relazione conflittuale e polemica. Ma che divenne tale solo dopo il Concordato, che Capitini visse come uno schiaffo alla nonviolenza. In quel momento l’opposizione al fascismo che lui aveva maturato divenne anche opposizione alla Chiesa romana. Venne accusato di essere anti-istituzionale, ma in realtà lui le istituzioni voleva rinnovarle, non combatterle. Diceva che la democrazia rappresentativa non era sufficiente e che la democrazia, per essere tale, doveva “aprirsi”. La stessa cosa, per Capitini doveva valere anche per la Chiesa. In questo senso aveva preso molto dal francescanesimo e non è un caso che la marcia della pace si concluda ad Assisi.
Capitini criticò anche il Concilio, vero?
Sì, e in questo forse fu un po’ eccessivo. Ma lui partiva dal problema della condanna della guerra, condanna che non trovò nel Concilio, e che quindi lo indusse a un giudizio molto severo. Capitini, in realtà, era molto religioso, ma la sua era una religione nuova, quella della nonviolenza, una religione che arriva fino a Dio e cambia l’immagine di Dio e dell’uomo.
In questo senso Capitini è molto gandhiano.
Sì, per lui Dio “è tutti i nomi”. E così come ci dovrebbero essere dei filosofi che si occupano della “filosofia della nonviolenza” a partire da Capitini, ci dovrebbero anche essere teologi che studino e rivalutino il pensiero di Capitini, che in alcuni momenti arriva al misticismo.
Oggi, quando vedo questi popoli in cammino – il popolo viola, il popolo arancione – li vedo come espressione della nonviolenza che avanza. Era il sogno di Capitini, quello di una cittadinanza che assume su di sé i problemi della quotidianità insieme a quelli del “mondo”. Una fraternità umana integrale.
L’intervista è apparsa in prima battuta il 19/06/2011 sulle pagine culturali del quotidiano Alto Adige