Cristiani e nonviolenti

La nonviolenza attiva ha radici profonde nel Vangelo.
È espressione del Mistero trinitario e caratteristica della vita di Gesù.
Luigi Bettazzi (Vescovo emerito di Ivrea - Presidente Centro Studi Economico Sociali per la Pace – Pax Christi)

La nonviolenza attiva è uno dei test più significativi per i cristiani. È stato, infatti, il centro della testimonianza di Gesù, Dio fatto uomo per insegnarci che, mentre la spinta perversa – quella che deriva dal peccato d’origine – porta il nostro io a ergersi al di sopra di Dio e degli altri, l’amore – che è la realtà, perché Dio è Amore – si esprime come accoglienza e come donazione. Gesù l’ha testimoniato con la sua vita e la sua morte e ce l’ha proposto con il significativo comandamento: “Ma io vi dico di non opporvi al maligno; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole... toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (Mt 5, 38-40). Che non è un invito alla passività, bensì l’impegno a rispondere alla violenza non con un’altra violenza, bensì in modo che anche l’altro cessi dalla violenza. Quando, infatti, durante la passione, “una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù dicendo: ‘Così rispondi al sommo sacerdote?’”, Gesù né reagisce con violenza né resta passivo, ma “gli rispose Gesù: ‘Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?’” (Gv 18, 22-23). Questa nonviolenza viene oggi talora identificata con la mitezza. Ed è proprio questa la caratteristica che Gesù si assume – assieme all’umiltà di cuore – e che propone ai suoi discepoli: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11, 29).

Il divieto di uccidere
Questa caratteristica viene vissuta e testimoniata dai primi cristiani, preoccupati di vivere la pace e la mitezza all’interno delle loro comunità (v. At 2, 42-49 e 4, 32-35; 1 Cor 1, 10-15). Per questo erano restii a fare i soldati (Massimiliano viene considerato il patrono degli obiettori di coscienza all’esercizio militare), salvo forse per i compiti di polizia, ma sempre pronti a rifiutare i sacrifici pagani che introducevano le grandi battaglie (v. i martiri della Legione Tebea).
Quando, nel IV secolo, la religione cristiana venne riconosciuta e gli imperatori (da Costantino a Teodosio) la qualificarono fino a renderla religione dell’impero, allora i cristiani si sentirono quasi obbligati a entrare nell’esercito, che difendeva lo Stato e, quindi, la Chiesa. Al massimo, il divieto di uccidere si imponeva all’interno, per chi non faceva parte del blocco Chiesa-Stato, con l’incoraggiamento alle guerre contro chi non era cristiano (S. Bernardo, “dottore mellifluo”, diceva che uccidere un musulmano non era omicidio, ma malicidio!) o aderiva alle eresie (dai Catari alle “streghe”).

La nonviolenza evangelica
Vi furono pacifisti per motivi religiosi (S. Francesco d’Assisi) o filosofici (Erasmo da Rotterdam), ma il valore dell’umanità, della persona umana, già richiamato dall’Umanesimo (secoli XV-XVI), esploderà nell’Illuminismo (v. rivoluzioni americana e francese), ispirato dal cristianesimo ma spesso contro le Chiese, ancora arroccate sulle prospettive tradizionali.
Vi sono stati piccoli gruppi coerenti con la nonviolenza evangelica (v. i Quaccheri, i Mormoni), mentre le Chiese restavano condizionate dalla mentalità diffusa sulla inevitabilità della guerra, giungendo prima a legittimare la “guerra giusta” (autorità di chi la intima, motivo serio, evitando gli eccessi), poi riducendo la liceità alla “guerra di difesa”, tanto che la nonviolenza risulterà come iniziativa dell’indiano Mahatma Gandhi, che in realtà diceva di averla appresa anche dal Vangelo, ma aggiungendo che non si era mai fatto cristiano vedendo quanto poco i cristiani la mettessero in pratica!
Non mancheranno recentemente, nella Chiesa cattolica, appelli contro la guerra, dall’“inutile strage” di Benedetto XV durante la Prima Guerra Mondiale al “con la guerra tutto può essere perduto” di Pio XII prima della Seconda Guerra Mondiale. La prima esplicita condanna fu quella di papa Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris del 1963, che affermò come “segno dei tempi” che le possibilità di negoziati e, d’altra parte, la forza terribilmente distruttiva delle armi moderne portano a concludere che “riesce quasi impossibile pensare – ma il testo latino è più forte: “alienum est a ratione”, è una follia – che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (n. 67).

Il Concilio
Il Concilio Vaticano II, già aperto, affrontò il tema nella discussione della Costituzione su “La Chiesa nel mondo contemporaneo” (il titolo latino è Gaudium et spes). Non si giunse a ribadire la condanna assoluta della guerra (come insistevano, ad esempio, due cardinali, il francese M. Feltin e l’olandese B. Alfrink, che risultarono poi, l’uno dopo l’altro, presidenti internazionali di Pax Christi), anche per la netta opposizione dell’episcopato americano, per la guerra allora in corso in Vietnam (disse un vescovo: “Non pugnalate alle spalle i nostri giovani che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana”!); si giunse, peraltro, a condannare (l’unica condanna di un Concilio, che il Papa aveva voluto “pastorale”) la guerra totale (allora la si indicava ABC, atomica, biologica, chimica): “Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione” (n. 80). Il che faceva dire al nostro teologo E. Chiavacci che un cattolico non potrebbe fare il soldato se non facendo obiezione di coscienza (almeno...implicita) alla guerra totale, come oggi spesso diventano le guerre moderne.
Dopo due anni (1967) nella Populorum progressio Paolo VI diceva, fin dalle parole iniziali, che il nuovo nome della pace è “lo sviluppo dei popoli”, ma che occorre eliminare l’ingiustizia per cui lo sviluppo di alcuni popoli blocca lo sviluppo di tanti popoli e alimenta tensioni e guerre. Dopo vent’anni (1987), Giovanni Paolo II, nella Sollicitudo rei socialis puntualizzava che la pace è solidarietà tra i popoli e che le violenze (anche economiche o commerciali) diventano cause di guerre. Dopo altri vent’anni (ma in realtà uscì nel 2009), l’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate apre esplicitamente alla nonviolenza, parlando di gratuità come un aspetto che deve accompagnare lo sviluppo economico, sociale e politico (v. nn. 34 e 38).
La nonviolenza, che normalmente viene riferita alla più evidente violenza militare, va invece estesa alle tante forme di violenza pubblica, per cui i cittadini più potenti – nell’ambito politico ed economico – orientano la vita dello Stato ai loro interessi, nella formazione delle leggi e nella gestione della vita pubblica, limitando la libertà effettiva e impoverendo la vita quotidiana di gran parte della popolazione. Ed è questa la violenza reale che, sul piano nazionale e sul piano mondiale, vanifica il cammino di una effettiva democrazia.
Credo che tutti i cristiani, ispirandosi al Vangelo, debbano maturare in ogni campo – da quello militare a quello politico ed economico – il grande principio della nonviolenza attiva, espressione del Mistero trinitario (l’unità nella molteplicità) e caratteristica della vita e del messaggio di Gesù Cristo. Un forte ed esteso convincimento dei cristiani aiuterà la teologia e lo stesso magistero a determinazioni chiare e urgenti, che portino il cristianesimo a riconoscersi e a rivelarsi sempre più come un messaggio e un impulso per un mondo di fraternità e di pace.

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