La rivoluzione nonviolenta
Quella di Capitini è una rivoluzione della politica mediante una rivoluzione della religione. Non ha dato luogo a una “nuova religione” (come, in qualche modo, ha fatto Tolstoj), ma a una azione nonviolenta inter-religiosa e alter-religiosa, o religiosa-aperta. Capitini è l’unico grande eretico religioso italiano, la cui novità non si è congelata in istituzione.
C’è un’utilità dell’eresia, anche per i credenti: la Chiesa se ne lascia stimolare?
Impresa ardua, l’opera di Capitini. È solo per noi pochi appassionati della nonviolenza? Sarà forse una superbia spirituale di pochi che si sentono eletti?
Nella legge che Mosè sente di ricevere da Dio, sul Sinai, è detto: “Non seguirai i molti nel male, e non deporrai in una contesa giudiziaria per pendere verso i molti, deviando” (Es. 23, 2). Perciò, rispettiamo la regola della maggioranza per decidere contando le teste invece di tagliarle, ma non rispettiamo necessariamente idee e scopi della maggioranza, quanto, invece, la piccola voce della coscienza, che vigila tesa a sentire meglio l’appello sempre nuovo del vero e del bene. La coscienza vaglia ogni legge. Credo superfluo citare qui don Milani sulla legge che va obbedita quando è tutela del debole, e, quando è sopruso dei forti, va cambiata con la politica e, al limite, con l’obiezione leale di coscienza.
Religione aperta
La “religione aperta” di Capitini è una laicità intesa come assunzione adulta di valori, una responsabilità allo scoperto, con tutti, nelle cose comuni del “laòs” (popolo) umano. Laicità è ciò che può – e deve – essere di tutti, sotto e attraverso le differenze, nella profondità preziosa che ci accomuna in umanità. Dio non è lassù, separato, trascendente, o nel tempio, ma nell’intimo sempre più vivo e più alto di ogni atto. È l’unità essenziale che tutto anima ed eleva.
Si tratta di una religiosità come tensione profonda e lunga, uno sguardo oltre il passo dei piedi, che pure è da curare con attenzione. Si cammina, nella storia, non si vola. Perciò devo chiedermi: dove metto i piedi? Tra il fango, la merda, l’abisso, la salita erta e incerta, devo pure scegliere il possibile, senza sognare coi piedi. Ma col cuore, sì! Perciò mi chiedo: in quale direzione va il tuo occhio, che guida il piede, quale che possa essere il tuo passo? Da quale luce è attratto?
L’unità di religione e politica, in Capitini come in Gandhi, non è l’associazione concordataria di due poteri, ma la convergenza operativa dell’ispirazione religiosa con l’amore politico. Non l’alleanza di due istituzioni, trono e altare, ma una sola azione morale verso il vero e il buono, e verso il bene di tutti.
Dunque, massima apertura, massimo orizzonte e, insieme, coscienza del limite, dell’io tra gli altri, con gli altri; io che, come tutti, ricevo molto e dò quello che posso. Vedo nella proposta di Capitini un “comunismo spirituale”, corale. Bisogna sapere che spirituale non vuol dire evanescente, ma intimo, profondo, molto vivo. A questo livello è la testimonianza di Capitini. Amo citare queste sue righe: “Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta, regno dell’amore che noi potremo vedere con i nostri occhi. Io so che gli ostacoli saranno sempre tanti, e risorgeranno forse sempre, anche se non è assurdo sperare un certo miglioramento. A me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore e di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia persuasione, del mio atto, che, anche se non è visto da nessuno, ha il suo peso alla presenza e per la presenza di Dio. E penso: forse, dovrà essere sempre così, vi sarà sempre questa lotta, questa affermazione fatta in un modo o in un altro; ma se sono veramente un persuaso religioso, in questa stessa lotta, in questa stessa affermazione, sento una serenità superiore, una presenza che mi redime dalla mia finitezza. E pur essendo vòlto infinitamente agli altri, prima del loro persuaderli – che può essere tanto difficile e impedito dal loro stesso agire o dalla mia inettitudine – l’atto religioso vale in intimo, come dedizione e come celebrazione redentiva” (Elementi di un’esperienza religiosa, ristampa anastatica Cappelli 1990, pp. 115-116).
Il potere di tutti
È una rivoluzione politica: il “potere” inteso come verbo (io posso, tu puoi,...), e non sostantivo; inteso come azione, atto, e non sostanza, non un oggetto (meno che mai uno scettro, un’arma) in mano di qualcuno. Il potere come “essere” e non come “avere”.
Dunque, il potere “di” (di vivere, pensare, agire) e non il potere “su” (su altri che abbiano meno potere). Infatti, Capitini propone un passo oltre la democrazia, un’“aggiunta” che realizza la democrazia: l’“omnicrazia”, il “potere di tutti”.
Potere “di” e potere “per”: per la realizzazione del valore-dignità, che va riconosciuta nel “tu-tutti”: nessuno senza gli altri, i tutti che non perdono nessun “divino tu”.
In questo ordine di pensieri, la libertà (da costrizione e oppressione, e da ostacoli) è necessaria per realizzare la giustizia. E la giustizia nelle opportunità è necessaria per realizzare la libertà della persona. Leggiamo ancora una volta l’art. 3 della Costituzione, più bello del tricolore e dell’inno di Mameli: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Cost.).
Gene Sharp (Politica dell’azione nonviolenta, tre volumi, Edizioni Gruppo Abele) ha una teoria simile sul potere, che egli trae dallo studio delle esperienze storiche di lotte nonviolente, dall’antichità fino al presente. In queste lotte egli analizza 198 tecniche (e non sono neppure tutte), che sono state la forza di liberazione dei popoli, senza uso di mezzi omicidi. Il potere di uno o di pochi consiste nell’essere obbedito dai molti. Non è altro. I re non hanno sangue blu. Il potente viene obbedito per le più diverse ragioni: convinzione, interesse, paura, minaccia, viltà, ignoranza. Ma, quando il potere opprime, i popoli coscienti e uniti hanno l’arma nonviolenta: la “bomba no”, che non uccide ma detronizza e parifica il tiranno, lo riporta dentro il diritto comune. La disobbedienza civile smonta il potere ingiusto. La lotta nonviolenta richiede coraggio e sacrifici, insieme a tutta la dignità, ma comporta infinitamente meno sofferenze e offese della lotta armata. Mi permetto di suggerire la bibliografia storica delle lotte nonviolente “Difesa senza guerra” in rete.
La compresenza
Capitini auspica “massima libertà sul piano giuridico e culturale e massimo socialismo sul piano economico”. Alla “compresenza” profonda di tutti gli esseri, fino ai derelitti e ai morti, corrisponde nel quotidiano la partecipazione: ognuno è centro irradiante; si fa politica nei “centri di orientamento sociale”, nel libero confronto delle proposte sui problemi, senza divisione in partiti rigidi. Questo suo esperimento fu poi sopraffatto dal metodo dei partiti. Ma rinasce in ogni lavoro di democrazia partecipativa (vedi Manuel Castells, in Internazionale, 24 giugno 2011, p. 30).
La nonviolenza non è solo un mezzo, giudicato per la sua efficacia: essa è già un fine raggiunto, perché “mentre viene usato, fa già vivere un diverso rapporto con gli altri esseri, e vivere questo diverso rapporto è proprio un buon fine”.
E le guerre di difesa? E le rivoluzioni? Capitini risponde: nelle circostanze della rivoluzione francese o sovietica, “avrei ritenuto che affermare la nonviolenza (…) era importante quanto fare ciò che fece Lenin o Robespierre”. “La violenza, anche rivoluzionaria, prepara la strada ai tiranni”.
Sembrava isolato, Capitini, ed è ancora davanti e al nostro fianco nella lunga marcia della nonviolenza, i cui passi, se stiamo attenti, scandiscono anche il presente, in tanti popoli, e, nonostante i dolori della guerra e dell’ingiustizia, fanno sperare, e fanno impegnare.