VOCI DI DONNE

Resistenza quotidiana

Una giovane palestinese racconta il coraggio delle donne contro le violenze degli occupanti.
Patrizia Morgante

Prosegue il nostro viaggio di incontro, conoscenza e dialogo con volti e storie di donne. Storie di lotta e di resistenza, alla ricerca di un proprio ruolo che rispetti le diversità di genere e che sia riconosciuto in piena dignità e pari diritti. Storie di solidarietà e di dono, per il bene di tutta la comunità cui appartengono. Questo mese, incontriamo Kifah Addara, di un piccolo villaggio palestinese, At-Tuwani. Abbiamo raccolto la sua testimonianza. Racconto di vita vissuta, squarcio di coraggio e di soprusi che, non troppo lontano da noi, avvengono ogni giorno.
È la storia di tanti, donne, uomini, bambini dei territori occupati.

Sono sposata e ho quattro figli; insieme ad altre gestisco la cooperativa delle donne del villaggio per una resistenza popolare nonviolenta. Nel nostro piccolo sobborgo, siamo soprattutto agricoltori e pastori; viviamo in armonia tra noi, abbiamo ottime relazioni e lavoriamo insieme.
Non abbiamo centri sanitari, né elettricità o acqua potabile. Ma amiamo la nostra terra e desideriamo viverci nonostante tutti questi inconvenienti. Dopo la seconda Intifada, per noi la vita è diventata ancora più difficile. Viviamo molto vicino a una colonia israeliana che avvelena i terreni dove portiamo le nostre pecore a pascolare, tagliano i nostri alberi e attaccano con pietre i nostri bambini, che devono fare chilometri a piedi per raggiungere la scuola. Ora vengono accompagnati dai soldati israeliani, i quali spesso arrivano in ritardo o costringono i bambini a correre inseguendoli con le loro jeep. Abbiamo perso molti dei nostri animali. Non abbiamo tante relazioni con gli altri palestinesi o con comunità internazionali, anche perché siamo gente semplice e non riceviamo molte visite.
Siamo in relazione con un’organizzazione nordamericana e con un’altra italiana e quando vengono a farci visita diciamo che anch’essi sono nostri vicini e parte della famiglia di At-Tuwani perché condividono la nostra stessa quotidianità.
Le donne nel villaggio, pur non essendo scolarizzate nella maggioranza dei casi, stanno assumendo un ruolo di protagonismo vero, nuovo, per la sopravvivenza del villaggio stesso e della comunità. Le donne, infatti, per studiare, sarebbero dovute uscire dal villaggio e questo culturalmente non era molto accettato. Ma tutte sono capaci di svolgere i lavori tradizionali e di realizzare i tessuti e i ricami tipici. Così abbiamo pensato di metterci insieme per “produrre”.
Le donne della cooperativa sono aumentate notevolmente nel tempo: abbiamo cominciato in 7, ora siamo 38. All’inizio gli uomini non vedevano di buon occhio la nostra cooperativa, ma poi hanno capito che le donne erano nella peggior situazione tra tutti coloro che vivono nel villaggio.
I soldi guadagnati ci hanno permesso di nutrire e di mandare a scuola i nostri figli. Altre donne dei villaggi vicini stanno collaborando con noi perché stanno nella nostra situazione.
Nel villaggio abbiamo anche un comitato popolare di cui fanno parte uomini e donne, attraverso il quale portiamo avanti azioni di resistenza nonviolenta contro l’occupazione. Il governo ci ha detto che non possiamo costruire la scuola e la moschea, ma noi abbiamo deciso di farlo lo stesso.
Tutti i bambini del mondo vanno a scuola e i nostri devono avere lo stesso diritto. Il governo israeliano ha detto che chiunque avesse lavorato nella scuola sarebbe stato arrestato. E così è stato per uno di noi, liberato dopo un po’ di tempo.
Abbiamo deciso insieme che le donne e i bambini lavorano nella costruzione della scuola durante il giorno, mentre gli uomini di notte. Questo anche per darsi il cambio nei posti di guardia e per avvertire nel caso arrivi l’esercito. Diciamo loro che vogliamo costruire la scuola perché i nostri bambini possano imparare e non decidere di lanciare bombe e usare la violenza. Abbiamo anche costruito una piccola clinica e una moschea. Talvolta distruggono le nostre costruzioni e noi le rifacciamo da capo. Quando dicono che non possiamo fare qualcosa, noi lo facciamo lo stesso.
In altri Paesi è il governo a provvedere a questi servizi. In alcuni allevamenti i polli hanno l’elettricità e noi no.
Nel 2008 Tony Blair è venuto a visitare il villaggio, ha detto che eravamo un piccolo villaggio, che non avremmo fatto male a nessuno e che avevamo diritto ad avere l’elettricità. Così ha chiesto al governo israeliano di fornirci un permesso permanente; noi abbiamo subito iniziato a costruire i piloni. Ci hanno detto che entro due settimane avremmo avuto l’elettricità. Le due settimane sono diventate un anno e mezzo. Alla fine del 2009 abbiamo visto dei militari israeliani arrivare con una jeep e hanno iniziato a sradicare i piloni da noi costruiti. Il comandante ha detto che sarebbero entrati nel villaggio per distruggere i piloni rimanenti, così abbiamo iniziato a bloccare la strada con grosse pietre.
Noi donne siamo scese in strada con i nostri bambini per poter fare qualcosa per questa situazione e ci siamo messe fisicamente davanti alla macchina. Loro facevano rombare il motore per spaventarci. Noi non ci siamo spostate, così il comandante ha detto al soldato che guidava di scendere e di colpirci con l’arma. Il soldato era una donna, che si è rifiutata di picchiare altre donne e bambini. Hanno preso i piloni più vicini a loro e non hanno potuto continuare oltre.
Ora cerchiamo di lavorare il giorno di Shabbat, quando l’attenzione degli israeliani è più bassa.
Noi non abbiamo armi ma ci sentiamo forti.

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