CONFLITTI DIMENTICATI

La speranza nel deserto

Memoria di un viaggio tra i sogni di libertà e le violazioni dei diritti del popolo saharawi.
Eugenio Morlini (Punto Pace Pax Christi Reggio Emilia)

A nome dell’associazione “Jaima Saharawi”, i primi giorni di gennaio, ci siamo recati a Laayoune, capitale del Sahara Occidentale. Volevamo essere essere vicini a chi sta soffrendo la dura repressione.
L’accampamento era stato organizzato da un gruppo di giovani saharauìs senza lavoro e senza futuro. Il deserto è il luogo mistico dell’essenzialità della vita; luogo libero per partire, radicalità che fa sperare nuova vita. Molti senza lavoro si aggiunsero, fino a raggruppare più di ventimila persone. Tania, una saharawi, ci raccontò la sua esperienza nell’accampamento. I giovani organizzavano tutto: il mangiare, la sicurezza esterna e le regole interne… Si dormiva con la tenda aperta, senza le paure della città e della repressione. Una sola famiglia: il popolo sahrawi era ritornato compatto, unito, libero di parlare la propria lingua… era bello! Non stento a credere che quella fu la prima scintilla della “primavera del Magreb”, nell’ottobre 2010.
La repressione dura del Marocco è documentata anche dal comunicato stampa, del 26 gennaio 2011, della missione sindacale europea nel Sahara Occidentale: “Durante la visita, la delegazione sindacale ha constatato la mancanza di libertà politiche, sociali e sindacali della popolazione e dei lavoratori e lavoratrici saharauis che non possono fare organizzazioni, associazioni e sindacati che non siano in linea con le direttive governative marocchine. Abbiamo avuto testimonianze che oltre cento saharauis sono ancora detenuti per avere partecipato alle proteste dell’accampamento di Gdeim Izik. Abbiamo anche constatato che lo sfruttamento delle risorse naturali saharauis non portano benefici per la sua popolazione (creazione di posti di lavoro, ecc.). Vogliamo denunciare anche il controllo poliziesco al quale siamo stati sottoposti. La polizia marocchina ci ha seguiti in tutti i nostri spostamenti, registrando e fotografando le nostre attività”. Anche noi, in due, siamo stati sottoposti a un controllo poliziesco oltre ogni misura.

Un pizzico di storia
Il popolo saharawi è costituito da gruppi tribali tradizionalmente residenti nelle zone del Sahara Occidentale. È stato colonia spagnola fino al 1976 e conteso poi tra Mauritania e Marocco. Quest’ultimo, sotto re Hassad, il 6 novembre 1975, con la “marcia verde”, ha occupato buona parte del territorio. Metà della popolazione è fuggita, profuga, in territorio algerino, dove ha vissuto per 35 anni accampata, sostenuta con gli aiuti umanitari.
Il popolo saharawi, che già aveva tanto lottato per la sua indipendenza, riprese l’attività del Movimento di Liberazione (POLISARIO - Frente Popular de Liberación de Saguia el Hamra y Río de Oro) per scrollarsi di dosso la nuova colonizzazione e costituirsi nazione libera. Il Marocco lo dichiarò area nazionale e, dilatando i confini, costruì più di 2000 km di muro in territorio saharawi, fino a impossessarsi delle ricche miniere di fosfati e della costa più pescosa del mondo.
Nel 1991 il POLISARIO accettò la tregua proposta dall’ONU e iniziò una resistenza nonviolenta che persiste tuttora. L’ONU sancì l’accordo promettendo la realizzazione di un referendum (mai tenuto).
Il governo del Marocco vi si oppose e, in tutta risposta, inviò (e lo fa tuttora) coloni nei territori occupati, mantenendo loro lo stipendio per lavori inesistenti. Tutto il Sahara è presidiato dalla polizia e dall’esercito marocchino (ci siamo fermati una decina di minuti all’imbocco del ponte sul fiume rosso e abbiamo constatato che ogni 8 automezzi che transitavano 6 erano delle forze marocchine). La repressione e la negazione dei diritti umani hanno creato molta paura in tutti. Ancora oggi, il popolo saharawi attende il referendum e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione sancito per tutti i popoli dalla Carta delle Nazioni Unite (art. 1).

Resistenza nonviolenta
Molte associazioni in Spagna, in Italia e in tutta l’Europa si stanno impegnando nell’accoglienza estiva dei bimbi saharawi, nati nei campi profughi, e nel dar sostegno al dialogo politico con i governi europei affinché esortino il re del Marocco a realizzare il referendum.
Lo scorso anno, Aminetu Haidar, il Gandhi saharawi, realizzò un digiuno di 32 giorni, rivendicando il diritto di unirsi alla sua famiglia nei territori occupati; diritto negato dalla Spagna e dal Marocco. La protesta fu così grande da costringere il Segretario dell’ONU, Banki Mun, e lo stesso Obama a intervenire. Aminetu potè ritornare a casa; ma il Marocco rimase fermo nel suo rifiuto al referendum.
Oggi la crisi economica contribuisce a rendere difficile la vita dei saharawi: non c’è lavoro, il costo della vita è ben superiore allo stipendio, e manifestazioni si svolgono in molte città.
Il 1°luglio si è tenuto il referendum costituzionale: il Marocco passerà da monarchia assoluta a monarchia parlamentare. Più del 72% degli aventi diritto hanno votato e i sì hanno raggiunto il 98%. Qualcosa sta cambiando.

La nostra visita
Ritornando dai territori occupati ci siamo fermati a Casablanca per fungere da osservatori internazionali al processo di sette saharawi accusati di tradimento della patria. Il processo è stato una autentica propaganda di regime (è stata anche fatta entrare gente in sala con striscioni e slogan a favore del re) e, dopo due ore di udienza, si è rinviato ai quindici giorni successivi. In seguito alle pressioni internazionali, ora “gli imputati” godono di libertà provvisoria. Altri, nel frattempo, sono stati prelevati dalle loro case, torturati e incarcerati.
Nei territori occupati, recintati dal muro della vergogna, abbiamo potuto incontrare e conoscere persone e realtà di gran valore. Oppressori e oppressi sono tutti musulmani.
Ci sono, però, anche due chiese cattoliche, vestigia della fu-colonizzazione spagnola; e oggi sussistono perché volute dagli oppressi. Due preti, uno spagnolo e l’altro congolese, ascoltano la gente. Nonostante il cordone della polizia, la gente fa la fila per poter parlare con loro.
In chiesa c’erano due presepi: uno musulmano, dove la culla è posta ai piedi di una palma e Maria che la scuote per far cadere il cibo per suo figlio. L’altro è saharawi e la sacra famiglia è posta sotto una tenda nel deserto. Questo, per i saharawi è risorsa e fonte di resistenza nonviolenta; per i marocchini è fucina di rabbia e persecuzione.
Nonostante i continui richiami a tacere e non entrare in alcuna casa, abbiamo fatto visita alla famiglia di alcuni amici saharawi impegnati nella commissione dei diritti umani. Dopo una bella e fraterna condivisione, ci confermò con certezza che i suoi figli vedranno la libertà.

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