Quale processo di pace?
L’attacco di metà settembre a Kabul, col quale la guerriglia ha reso evidente la sua capacità di colpire senza difficoltà il cuore della capitale e il cervello della macchina, afgana e occidentale, che costituisce il fulcro dell’occupazione, è arrivato in un momento delicato: l’avvio della transizione (il passaggio di consegne tra Isaf/Nato e forze di sicurezza afgane); la preparazione della Conferenza internazionale di Bonn a dicembre (a dieci anni dallo storico appuntamento del 2001 dopo la cacciata di mullah Omar); e l’avvio di un processo di pace di cui si sa e si capisce molto poco. Qualche giorno fa l’ex ministro degli Esteri talebano Muttawakil ha riproposto l’ipotesi dell’apertura di un ufficio politico dei talebani all’estero, cosa di cui si era da poco parlato a proposito di Ankara, per facilitare il processo di pace. Muttawakil ha fatto all’agenzia Pajhwok il nome di Doha la capitale del Qatar. Ma la domanda vera è: quale processo di pace?
Di processo di pace si discute molto e sembra per ora soprattutto un augurio. Di pace invece si parla poco, se intendiamo per pace le azioni, anche le più piccole, che cercano di costruirla. Ecco, dunque, quale è stato il senso della prima delegazione ufficiale di pacifisti europei in Afghanistan che si è recata a Kabul a inizio settembre. Organizzata dalla rete “Afgana”, accompagnata da un’associazione americana di parenti delle vittime dell’11 settembre, la missione della Tavola della pace (tra cui figuravano delegati di Libera, Pax Christi, Assopace e alcuni amministratori di enti locali per la pace) aveva proprio l’intenzione di dimostrare che, se un altro mondo non è ancora possibile, si può tentare almeno di costruirlo. Il gruppo ha incontrato i parenti delle vittime della guerra afgani in una cornice simbolica che voleva mettere sullo stesso piano tutti coloro che, nelle forme più diverse, si oppongono alle guerre come mezzo per risolvere i problemi. Il viaggio è stato però anche l’occasione di vedere coi propri occhi. E di riflettere sul conflitto, anche a partire dall’asfalto sconnesso o inesistente nelle strade di una capitale che appare come il simbolo di un fallimento politico (della guerra).
A Kabul le cose sembrano ripetersi ormai con una certa indolenza. Come se tutti ormai fossero consci che il fattaccio è compiuto. Gli americani se ne vanno – 10mila quest’anno, 23mila l’anno prossimo – e gli europei stanno facendo le valige. “Via dalla pazza guerra” - per citare il libro con cui Alidad Shiri, un ragazzo che ha efficacemente raccontato la sua odissea di fuga dall’Afghanistan all’Italia - è quel che tutti pensano e nessuno dice. Dopo di che venga anche il diluvio. Avremo altro cui pensare.
In questo clima di rassegnazione fluttuante il diluvio viene giù veramente. Abbastanza per ingrossare il fiume Kabul, far scricchiolare le case abusive e che si arrampicano sui pendii delle montagne e per tramutare in fango la polvere imperante in una capitale che sembra un cantiere di lavori in corso destinati a non finire mai e dove, per la prima volta, il visitatore ciclico viene assalito da un sentimento che il cinismo della nostra professione dovrebbe scansare. Nel delicato giardino di Areu, un centro di ricerca che ha 14mila tra volumi e documenti e un tavolo dove, con connessione gratuita, chiunque può consultarli e scaricarli, Ahmad Joyenda, un ex parlamentare molto amato ed elegante, ci viene incontro felice del suo nuovo incarico (è vice direttore). Ci mostra i locali e indica dossier e ricerche, presenta i collaboratori, invita per il tè. Che sarà di lui e di quelli che, come lui, stanno tentando di fare di questo Paese un posto pacifico e civile? Cosa sarà degli attivisti per i diritti umani, per le donne senza il burqa, di quella società civile che in questi anni (paradossi della guerra) è cresciuta alimentata da una promessa di democrazia e sviluppo che stenta ad affermarsi? Che fine fa questa generazione (non per età ma per comune sentire) che è davvero l’unica promessa di riscatto per questo piccolo grande Paese? Lontani dai signori della guerra, dai maneggi in parlamento, dagli affari e dalle commesse, dall’oscurantismo dei talebani.
Transizione
Non ce ne si preoccupa nelle algide stanze della diplomazia dove si discute dei prossimi appuntamenti internazionali: l’incontro di Istanbul a novembre e quello di Bonn a dicembre inframmezzato dal summit della Nato che fisserà i paletti del ritiro che ormai si chiama “transizione”. Una transizione che dovrebbe preoccupare.
Cominciato male, questo conflitto rischia di finir peggio, magari di tramutarsi in una guerra civile. E non consola Sima Samar, che dirige la Commissione indipendente per i diritti umani, che ci accoglie nel suo ufficio di Karthe Se con un aforisma incontestabile: “Nessuno vince con la guerra, tutti perdono”. Regalano un po’ di speranza, un isolato più in là, i locali ben arredati di The Killid Group, dove il fruscio delle tastiere e il chiacchiericcio dei giornalisti fanno da sottofondo a una breve visita in questo tempio del neonato giornalismo indipendente afgano: otto radio e due magazine. La direttrice, Najiba Ayubi, una sorta di forza della natura, sdrammatizza: “Abbiamo avuto un unico problema coi talebani perché trasmettevamo musica indiana. Tutto risolto con un po’ di brani pachistani”. Ma dietro a quel largo sorriso, al trucco che le imbelletta il volto e al rossetto che disegna le sue labbra, anche Najiba è preoccupata. È una delle dieci rappresentanti della società civile afgana che andranno a Bonn a far sentire una voce poco ascoltata. Avranno, oltre che udienza, la capacità di farsi ascoltare? Forse sì anche se molto dipende dalla disposizione delle nostre orecchie.
Se Killid mette di buon umore, il panorama della stampa afgana non è esattamente l’oro che sembra brillare a prima vista. In molti casi i Paesi vicini, ognuno con la sua agenda afgana, ci mettono quattrini e risorse. Su 30 canali televisivi quasi un terzo sono in mano agli iraniani, ad esempio, che controllano anche 15 testate. Poi ci sono i sauditi, i pachistani e noi che finanziamo la nostra parte. Killid è indipendente: ha costruito la sua fortuna editoriale, oltreché sulle vendite dei periodici e la pubblicità radiofonica, distribuendo per conto della Nato le sue pubblicazioni, fogli patinati che cantano i successi militari occidentali. Dove veleggiano molte ombre.
L’ultima in ordine di tempo si legge nel dossier di Human Rights Watch “Just don’t call it a Militia”, dove si documentano gravi violazioni da parte sia di una nuova versione locale di polizia (Afghan Local Police o Alp, creata nel 2010) sia da decine di milizie armate sostenute da vari signorotti della guerra. Parte di una strategia di autodifesa civile messa in piedi dall’intelligence afgana e sostenuta con armi, denaro e teoria dagli americani, questo nuovo proliferare di mini eserciti è difficilmente distinguibile dai cosiddetti arbakai, le forze di autodifesa locale dei villaggi di antica tradizione e nucleo primario delle milizie irregolari dei warlord. Se non bastasse di ombra c’è n’è un’altra.
Domenica, in un’intervista esclusiva ad Al Jazeera, l’ex ministro degli Esteri talebano Wakil Ahmad Muttawakil, ha detto che il governo di mullah Omar era disposto a mandare alla sbarra Osama bin Laden. Washington però non si fidava del governo di Kandahar e lasciò cadere. Insomma, in buona o mala fede, l’Emirato talebani cercò di risolvere il problema Osama ma gli americani non si mostrarono interessati, come ha confermato dal capo della Cia in Pakistan dell’epoca, Robert Grenier. Anche qui questione di ascolto.
Il valore più luminoso della missione della Tavola della pace, per tornare al primo tema del nostro racconto, forse è stato anche questo.
Mettersi ad ascoltare quello che gli afgani hanno da dirci e che nessuno, per ora, sembra abbia voluto sentire.