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Cantieri in corso

Un’intervista esclusiva a Giorgio Bernardelli, autore di Ponti non muri.
Cantieri di incontro tra israeliani e palestinesi.
Intervista a cura di Giulia Ceccutti

Giorgio Bernardelli è giornalista della rivista del Pime Mondo e Missione e collabora con Avvenire. È autore di diversi libri sulla Terra Santa e ha ideato e curato la mostra itinerante Giusti dell’islam, dedicata alle storie di alcuni musulmani che salvarono alcuni ebrei durante la Shoah. Il suo ultimo libro, Ponti non muri. Cantieri di incontro tra israeliani e palestinesi (Edizioni Terra Santa, 2010), racconta, attraverso alcuni temi-chiave, come il conflitto, tocca tutti i giorni la vita delle persone. A partire dal libro, ecco alcune riflessioni.

Sulla Terra Santa, una terra da sempre sotto i riflettori, è stato già scritto tantissimo. Perché questo libro?
Il libro parte proprio da questa consapevolezza: siamo tutti stanchi delle parole sulla pace in Medio Oriente. Siamo stanchi di speranze che finiscono immancabilmente deluse e di analisi di tanta gente che – saltando a pie’ pari la complessità delle situazioni – ha sempre pronte in tasca soluzioni facili che funzionerebbero “se solo quelli che abitano là fossero più ragionevoli...”. Queste pagine provano a ribaltare la prospettiva. Provano a lasciar parlare fatti concreti di pace costruiti in Israele e Palestina da persone che non si rassegnano alla logica del conflitto. Professori che provano a educare i propri ragazzi all’idea che esiste una “storia dell’altro”, archeologi che lottano perché gli scavi alla ricerca delle tracce del passato non diventino essi stessi un’arma; famiglie – israeliane e palestinesi – che decidono di donare gli organi di un proprio congiunto morto a causa del conflitto sapendo che andranno a donare la vita anche a chi sta dall’altra parte della barricata... Sono gesti concreti, molte volte semplici, che non rappresentano la soluzione del conflitto. Ma tengono viva la speranza, mostrando come potrebbe essere una Terra Santa riconciliata.

Il Papa, nel messaggio per la pace del 1° gennaio 2010, ha ricordato che la pace passa per il rispetto delle religioni. Quali segni di libertà religiosa che porta alla pace si possono trovare in Terra Santa ?
C’è un pregiudizio che va superato: l’idea che Gerusalemme sia l’epicentro dello scontro tra le religioni. L’abbiamo sentito dire così tante volte che ormai tendiamo a crederci davvero. Ma è una visione falsata della realtà. Perché – come ovunque – la storia e il presente di Gerusalemme conoscono entrambi i volti: quello dello scontro ma anche quello dell’incontro tra le religioni.
In tema di libertà religiosa, ad esempio, oggi si parla molto del principio della reciprocità. Solo che lo si fa, sostanzialmente, in chiave polemica: siccome voi non ci lasciate costruire le chiese in Arabia Saudita, noi non dobbiamo lasciarvi costruire le moschee a casa nostra. Forse varrebbe la pena di ricordare che il criterio della reciprocità valeva già nella Gerusalemme dell’XI secolo: nel 1009, infatti, il sultano musulmano al Akhim fece sì incendiare la basilica del Santo Sepolcro, ma fu una pagina nera che durò poco. Perché già il suo successore raggiunse un accordo con il patriarca di Gerusalemme: se voi ci lasciate costruire una moschea a Costantinopoli – fu il patto – noi vi lasciamo ricostruire la basilica del Santo Sepolcro. E, infatti, quando arrivarono i crociati, i lavori erano già cominciati. La differenza rispetto a oggi è che, allora, alla base del criterio della reciprocità c’era un riconoscimento vero dell’altro. Solo così può funzionare. Questo insegna la storia ma anche il presente di Gerusalemme: l’unico posto al mondo dove ogni venerdì una croce può entrare senza nessun problema nel cortile di una scuola islamica per la prima stazione della Via Crucis dei francescani sulla Via Dolorosa.

È possibile individuare dei tratti che accomunano le diverse esperienze descritte nel libro? Ovvero: quando è possibile davvero creare ponti? Quali sono le basi che permettono l’inizio della loro costruzione?
Io credo che il punto fondamentale sia accettare l’idea che la pace non è l’happy end che si impone da solo, come logica conseguenza, ma qualcosa che richiede fatica e disponibilità a compiere scelte che comportano prezzi da pagare, anche in termini personali. Perché costruire ponti vuol dire accettare fino in fondo la complessità delle situazioni, evitando gli slogan e le semplificazioni. Se questo è vero sempre, credo che valga in maniera particolare per il conflitto israelo-palestinese, una guerra che dura ormai da quasi un secolo in Medio Oriente. Un secolo non è solo un arco di tempo molto lungo, ma un’esperienza che segna nel profondo la vita della persone. Il conflitto diventa qualcosa che ci si porta dentro in termini di paure, pregiudizi, pre-comprensioni con cui occorre fare i conti. Ecco, credo che l’elemento unificante di tutte le storie che racconto nel libro sia la grande libertà con cui queste persone provano ad affrontare tutti quei nodi che storicamente sono alla base di questo conflitto: il rapporto con la terra, il modo di guardare alla storia, il concetto di legalità, l’uso delle armi... Sono persone che non scelgono la strada dei riflessi condizionati, ma provano ogni giorno a interrogarsi su ciò che è giusto per tutti.

Cosa dicono queste real- tà di pace alla società italiana ?
Se le prendiamo sul serio, possono scalfire tante nostre illusioni. A noi piace tanto ripetere la frase: “Quando ci sarà la pace a Gerusalemme, ci sarà la pace in tutto il mondo”. Certamente questa è una frase importante, che ha una sua verità. Noi, però, siamo portati a intenderla in maniera troppo comoda: pensiamo che quando loro a Gerusalemme avranno fatto la pace, anche noi qui finalmente potremo starcene in pace. A me piace, invece, guardare a questa frase in senso contrario: quando noi avremo imparato a vivere davvero in pace qui – ad esempio rispettando anche il fratello che, venuto da lontano, ormai ci vive accanto – allora ci potrà essere pace anche a Gerusalemme. Perché la Città Santa è uno specchio di tante nostre paure e contraddizioni: pretendiamo che ebrei, cristiani e musulmani vivano in pace in un fazzoletto di terra contesa, ma guai a proporre di costruire una moschea in una città come Milano...

E invece ai cristiani?
Credo che queste storie indichino molto bene che in Terra Santa (ma anche altrove) non esiste “la pace dei cristiani”. Si parla tanto dell’esodo dei cristiani dal Medio Oriente e dei modi più efficaci per combatterlo. Oggi, poi, si sente ripetere sempre più spesso un termine come “cristianofobia”. Ma dobbiamo vincere la tentazione di pensare che esista una soluzione che guarda solo a difendere i cristiani.
L’unica risposta vera è promuovere una pace capace realmente di portare giustizia a tutti. E in questo cammino i cristiani devono avere l’umiltà di capire che non sono soli: come raccontano queste storie, ci sono anche tanti ebrei, musulmani o semplici uomini di buona volontà che operano concretamente al servizio di ogni uomo, che noi sappiamo essere immagine di Dio.

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