Il caos in Iraq si è placato?

L’impegno, la presenza e la rete di solidarietà dal basso: il ruolo dell’associazionismo e della cooperazione.
Ismaeel Dawood e Martina Pignatti M.

C’è chi dice che la situazione in Iraq si stia normalizzando, ma l’impressione che il Paese sia sicuro è drammaticamente errata. Trascorsi otto anni dalla guerra, passate due elezioni generali e sette mesi di incarico dell’ultimo governo, gli iracheni vivono ancora in una difficile combinazione di violenza quotidiana, mancanza di servizi e corruzione diffusa. L’associazione italiana di volontariato Un ponte per... che nel 2004 ha dovuto lasciare il Paese dopo il rapimento delle due Simone, ha riaperto un ufficio nel Nord dell’Iraq, a Erbil, e continua a lavorare nel resto del Paese solo grazie ai propri partner e operatori iracheni. L’obiettivo strategico di tutti i progetti è quello di rafforzare gli attori locali che lottano e lavorano quotidianamente, in situazioni di alto rischio, per la protezione dei diritti umani, la promozione della nonviolenza e la salvaguardia del patrimonio culturale iracheno. Le missioni di solidarietà ci consentono di captare la costante paura ma anche la crescente indignazione degli iracheni, che non hanno intenzione di continuare a subire in silenzio.

Vita quotidiana
La percezione della popolazione è che la tensione possa scoppiare a ogni istante, e potrebbe aumentare in particolare a fine 2011 a seconda della decisione che prenderà il governo iracheno in merito al ritiro delle truppe americane. La violenza sembra sempre più politicamente motivata e legata alle lotte intestine per il controllo del territorio tra fazioni. Il processo politico non è stabile anche perché la costituzione irachena non ha risolto alcuna delle domande basilari sull’identità del “Nuovo Iraq” e, in parte, a causa del risultato delle ultime elezioni: nessun grande vincitore e nessuna maggioranza chiara. Come dichiarano funzionari del COSIT, ufficio statistico e informatico, cuore dell’amministrazione irachena: “La situazione dei diritti umani dal 2010 si è deteriorata a causa del lungo processo di formazione del governo che è seguito alle elezioni. Questo ha alimentato l’instabilità e ha determinato una grave inattività nell’implementazione di riforme e altre misure per la protezione dei diritti umani della popolazione”.
Dal 2003 grossi cambiamenti sociali ed economici hanno sconvolto il Paese creando ostacoli al processo di sviluppo, anche per il fatto che l’economia è quasi interamente basata sul petrolio (due terzi del prodotto interno lordo). Prima del 2003 l’Iraq era uno Stato in cui il settore pubblico costituiva il cuore dell’economia, generava la maggior parte dei posti di lavoro in settori quali l’industria, le ferrovie, i tessili, l’agricoltura, la polizia e l’esercito. La situazione è cambiata completamente quando l’amministrazione americana ha attuato una serie di politiche e procedure per introdurre in Iraq l’economia di mercato e il Paese ha iniziato a importare tutti i beni essenziali dagli Stati confinanti, dalle automobili ai blocchi di cemento, dal carburante alle verdure. I confini iracheni sono stati aperti a ogni tipo di bene senza tassazione. Tutto questo ha lasciato le giovani generazioni senza opportunità lavorative, in un contesto in cui il sistema di sicurezza sociale e le leggi sull’impiego sono datate e non rispondono agli standard internazionali. I giovani trovano solo lavoro a bassa produttività, a condizioni lavorative di sfruttamento e salari bassissimi, soprattutto per le donne. Per questo tendono a non dare valore al lavoro e manca loro la volontà di migliorare la propria situazione lavorativa, nelle imprese o con il sindacato.

Il Giorno della Rabbia
Nel 2011 i partner internazionali dell’Iraq, inclusi ONU e UE, hanno presentato un rapporto con una serie di raccomandazioni al governo iracheno. Nella sezione che riguarda l’economia leggiamo: “Nonostante sia un Paese con reddito medio, l’Iraq affronta problemi tipici dei Paesi poveri. Questi includono: eccessiva dipendenza da una risorsa primaria; grave necessità di ricostruzione e riabilitazione di infrastrutture; standard di vita in declino assoluto. (…) Il progresso dell’Iraq negli Indicatori di Sviluppo del Millennio è molto relativo. L’Iraq rimane un ambiente di transizione complesso e fragile in cui fattori politici pregiudicano ancora il successo e l’equità dell’agenda di sviluppo”.
Per tutte queste ragioni, sull’onda delle rivolte arabe, il 25 febbraio 2011 l’Iraq ha vissuto il suo primo “Giorno della Rabbia”. Per settimane, migliaia di persone e attivisti hanno partecipato a manifestazioni di protesta. Tra loro, la maggior parte non desiderava rovesciare il governo ma promuovere riforme politiche, denunciare la corruzione che ha paralizzato l’amministrazione nazionale e quelle locali, ottenere elettricità, acqua, educazione, lavoro e protezione dei diritti umani, diritti delle donne e dei lavoratori. Gli attivisti, coinvolti in queste proteste, sono stati minacciati in vario modo: più di 20 uccisi dalle forze di polizia in una sola giornata, in varie città, dozzine di arresti e molte persone picchiate per strada. Rappresentanti sindacali sono stati arrestati, torturati negli interrogatori, e rilasciati solo dopo una campagna promossa da associazioni locali e internazionali dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI), inclusi i sindacati internazionali. La città di Sulaimanyia nel Nord, e Pizza Tahrir a Baghdad, sono diventati i luoghi simbolo di questa rivolta.
Amnesty International ha chiesto alle autorità irachene di “condurre un’inchiesta completa, approfondita e trasparente sulle uccisioni e gli attacchi ai manifestanti e le minacce e assalti contro giornalisti e altre categorie”. Per tutta risposta, il governo iracheno ha tentato di criminalizzare il movimento, arrestando ad esempio, nel giugno 2011, un gruppo responsabile di orribili delitti e dichiarando che il loro leader fa parte di un’Organizzazione Non Governativa e ha partecipato alle manifestazioni a Baghdad. Durante la Conferenza Nazionale Irachena sui Diritti Umani, tenutasi a Baghdad nello stesso mese con l’obiettivo di stilare un piano d’azione per il miglioramento dei diritti, la coraggiosa attivista irachena Hana Edwards è intervenuta – nonostante non fosse permesso alle ONG – denunciando le minacce ai diritti umani provenienti dalle autorità e chiedendo il rilascio di quattro giovani manifestanti. Ha chiesto, inoltre, al Primo Ministro di scusarsi per aver descritto le organizzazioni della società civile irachena e gli attivisti di Piazza Tahrir come criminali e terroristi, poi è stata trascinata fuori dalla sala.
La repressione non ha spaventato gli attivisti che hanno continuato a pianificare nuove manifestazioni, costruire reti di associazionismo e interloquire con organizzazioni internazionali come Un ponte per... per chiedere visibilità e protezione. I giornalisti, in particolare, hanno raccontato quello che succedeva per le strade e si sono mescolati agli attivisti, pagandone un prezzo altissimo. Asos Hardi, direttore di un giornale indipendente kurdo e membro del comitato consultivo di Human Rights Watch per il Medioriente, è stato assaltato il 29 agosto, la sera all’uscita dalla sede della redazione e picchiato selvaggiamente alla testa. Hadi al-Mahdi, popolare giornalista radiofonico e attivista a Baghdad, è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa in casa sua, la notte prima della grande manifestazione che stava organizzando a Baghdad per il 9 settembre. Il corteo di protesta è diventato così il suo corteo funebre. Poco prima di morire aveva pubblicato su facebook le sue ultime parole di denuncia: “Da tre giorni vivo nel terrore. Alcuni chiamano e mi avvisano di imminenti arresti di manifestanti, dicono che il governo mi farà questo e quello. Qualcuno con nome falso entra in facebook per minacciarmi. Ma continuerò a partecipare alle manifestazioni, perché credo fermamente che il processo politico sia un fallimento e meriti di cambiare. Non rappresento alcun partito politico né alcuna fazione, ma la situazione miserabile in cui viviamo... sono stanco di vedere le nostre madri mendicare per strada mentre politici ingordi rubano le risorse del Paese”.

Per non dimenticare
Nelle carceri irachene si mescolano criminali e detenuti politici e, secondo l’ultimo rapporto della Missione ONU di Assistenza all’Iraq (UNAMI) “problemi significativi permangono in merito al rispetto delle legge e all’amministrazione della giustizia, specialmente nella conduzione di processi giusti in cui si rispettino i diritti dell’imputato”. L’incidenza di abusi e tortura nelle carceri rimane alta, i detenuti, prima del processo, spesso non sono informati delle accuse a loro carico, non possono incontrare l’avvocato né contattare i familiari. Il sistema giudiziario si basa eccessivamente su confessioni estorte piuttosto che su evidenza emersa da indagini, incoraggiando quindi gli abusi. In questo contesto, è particolarmente grave il fatto che l’Iraq continui ad applicare la pena di morte, anche per delitti minori, e abbia rifiutato di prendere in considerazione una moratoria.
Della situazione dei diritti umani in Iraq e delle campagne di resistenza civile alle violazioni discuteranno a Erbil (Kurdistan iracheno) l’8-9 ottobre 2011 oltre 150 iracheni e 100 internazionali nella conferenza dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (ICSSI). Questa iniziativa, nata all’interno del Forum Sociale Mondiale dopo le grandi manifestazioni del 2003 contro la guerra in Iraq, mira a rompere l’isolamento della società civile irachena, unica forza sociale in grado di spingere per un cambiamento positivo, e denunciare le responsabilità della comunità internazionale per l’attuale situazione in Iraq.
Un ponte per... invita tutti coloro che nel 2003 hanno esposto le bandiere della pace sul proprio balcone a non dimenticare l’Iraq, perché, se non siamo riusciti a fermare la guerra, siamo ancora in tempo a bloccarne i disastrosi effetti sulla popolazione irachena.

Note

Ismaeel Dawood
Attivista per i diritti umani di Baghdad e operatore di Un ponte per...

Martina Pignatti M.
Un ponte per...

Ultimo numero

Rigenerare l'abitare
MARZO 2020

Rigenerare l'abitare

Dal Mediterraneo, luogo di incontro
tra Chiese e paesi perché
il nostro mare sia un cortile di pace,
all'Economia, focus di un dossier,
realizzato in collaborazione
con la Fondazione finanza etica.
Mosaico di paceMosaico di paceMosaico di pace

articoli correlati

    Note

    Ismaeel Dawood
    Attivista per i diritti umani di Baghdad e operatore di Un ponte per...

    Martina Pignatti M.
    Un ponte per...
    Realizzato da Off.ed comunicazione con PhPeace 2.7.15