Il mio Iraq
L’Iraq è scomparso dall’informazione in Italia. Eppure il Paese si trova di fronte a scelte determinanti per il proprio futuro. Le truppe americane, secondo l’accordo Sofa firmato tra Iraq e Usa, si devono ritirare entro la fine dell’anno. Non è stato chiesto, finora, agli Usa di restare, anche se circa 10.000 militari continueranno ad addestrare le forze irachene, così come resteranno molti contractors (mercenari) sul libro paga della Casa bianca. Nessun partito ha chiesto agli Usa di restare, anche quelli che l’avrebbero voluto, perché sarebbe stato estremamente impopolare. E anche per le pressioni iraniane che si sono espresse attraverso il leader sciita radicale Muqtada al Sadr. Inoltre, è finalmente arrivata in Parlamento la legge sul petrolio, finora rinviata per divergenze di posizioni, la cui approvazione è essenziale per dare il via allo sfruttamento su grande scala dell’oro nero.
Voglia di riscatto
È stato ignorato dai media italiani anche l’arrivo in Iraq della rivolta araba partita dalla Tunisia, che vede protagonisti i giovani (donne e uomini) iracheni che si ritrovano a piazza Tahrir (liberazione, proprio come quella del Cairo) per rivendicare migliori condizioni di vita (sono ancora tremende), lavoro, libertà e democrazia. La situazione è così drammatica da convincere il premier Nuri al Maliki, per tentare di disinnescare la rivolta, a stornare parte dei soldi destinati alla commessa degli F-16, in discussione con gli Usa, per utilizzarli nell’acquisto di derrate alimentari distribuite e razionate alla popolazione.
Di tutto questo i media italiani non parlano (tranne rare eccezioni come Mosaico di pace), ed è anche per questo, oltre che per motivi personali, che nel 2009 sono tornata a Baghdad: volevo raccontare il nuovo Iraq e l’ho fatto con un libro, Il ritorno. Il nuovo Iraq che ho trovato era, per molti versi (condizioni di vita), identico a quello che avevo lasciato nel 2005, ma nello stesso tempo (ora temo la situazione sia nuovamente peggiorata a causa dei numerosi e sanguinosi attentati) presentava una vivacità che avevo dimenticato. Nel 2005 avevo lasciato una città morta e, tornando, due volte nel 2009, ho trovato una città viva: piena di gente per le strade fino a tarda ora, molte donne, liberate dal velo e tornate a vestire jeans e camicette scollate, che cenavano nei ristoranti sole o accompagnate. Il segno di riscossa e di voglia di tornare alla laicità che aveva vissuto in passato. Ho visto anche una suora che girava tranquillamente per le strade della capitale, cosa che era diventata impossibile dopo i feroci attacchi ai cristiani. Ma poi con le elezioni e ora in vista del ritiro degli americani, la situazione è nuovamente cambiata, sono molti gli interessi in gioco in Iraq e diverse le potenze che non vogliono perdere l’influenza sul Paese, non sono solo gli Usa.
Sarebbe ora di tornare a raccontare l’Iraq di oggi, avendone le possibilità (economiche). Ma quale giornale sarebbe disposto a dimostrare che la guerra in Iraq ha provocato tanta distruzione, che la ricostruzione non è mai cominciata e che la democrazia resta un miraggio?
Per i giornalisti, ormai, il capitolo Iraq si è chiuso con il ritiro degli italiani e, se qualche ricordo riemerge, è solo quando si verificano sequestri di giornalisti italiani in altri Paesi, come è avvenuto recentemente in Libia. In questo caso, forse inconsapevolmente e indirettamente, si sottolinea il fatto che una svolta dell’informazione si è avuta proprio con la guerra in Iraq, nel 2003. Forse persino con un precedente nella prima guerra del Golfo, consumata senza, o quasi (c’era solo la Cnn e Il manifesto), testimoni nel 1991. Al contrario, nel 2003 c’erano molti testimoni in Iraq, ma da allora l’informazione è cambiata: è stata militarizzata. E i giornalisti indipendenti sono entrati nel mirino delle Forze Armate, di quelle che invadevano e occupavano il Paese, ma anche di quelle che dicevano di combattere l’occupazione. Di quelli che mi dicevano di avere il diritto di liberare il proprio Paese “come avevano fatto gli algerini e i vietnamiti”, tanto per citare l’affermazione di uno dei miei rapitori che mi aveva mandato su tutte le furie, e, aggiungeva, che per farlo avrebbero utilizzato anche me.
Effetti di una guerra
Nelle guerre i giornalisti hanno sempre corso rischi, è capitato spesso che fossero accusati di essere delle “spie”, i due “mestieri” si basano entrambi sulla raccolta di informazioni, sebbene l’obiettivo sia ben diverso. Io mi ricordo che nel gruppo di giornalisti che bivaccavano all’hotel Palestine, o prima al Rashid, in attesa della guerra o anche durante la guerra, c’erano sicuramente dei personaggi ambigui: doppio lavoro, o uno solo sicuramente più redditizio? Questo, purtroppo, è sempre avvenuto, ma la guerra in Iraq ha registrato un’altra svolta: l’istituzionalizzazione dei giornalisti “embedded” che ha “inquinato” definitivamente la nostra categoria. Ci sono sempre stati giornalisti al seguito delle truppe, ma in questo caso si tratta di vero e proprio arruolamento con training, selezione, accettazione di condizioni, tra le quali la censura. Quando i giornalisti “embedded” sono arrivati a Baghdad con la loro divisa color kaki trasportati sui mezzi militari, improvvisamente noi che eravamo già lì abbiamo cominciato a mostrare con orgoglio il nostro odiato accredito strappato ogni settimana agli iracheni. Quel pezzo di carta giallo ci permetteva di distinguerci da chi aveva un accredito in piena regola, plastificato e ben visibile sulla “divisa”.
Questa visione dei colleghi “embedded”, che ha turbato molti di noi, ha avuto un brutto effetto soprattutto sugli iracheni. E ha sancito la militarizzazione dell’informazione: i giornalisti hanno sempre più spesso considerato la possibilità di andare “embedded” in un luogo di conflitto non come una esperienza, ma come l’unica possibilità. E l’informazione sulla guerra è sempre stata più succube della propaganda, di una parte o dell’altra, e di una visione unica, quella militare. O stai con noi o contro di noi. Non puoi più essere indipendente, e se lo sei, sei sempre più vulnerabile, “te la vai a cercare”. Io l’ho provato sulla mia pelle: come dimostrare che non ero una spia ai miei accusatori quando ero sotto sequestro? E quando hanno verificato che non lo ero, comunque ero un’”arma” nelle loro mani. Da pacifista che era arrivata a Baghdad per manifestare contro la guerra e giornalista che aveva raccontato gli effetti devastanti dell’attacco militare e dell’occupazione, mi ero trasformata in “arma di guerra”. Mi sentivo prigioniera di me stessa, delle mie stesse convinzioni. Questa è la guerra, questo è il deterioramento prodotto dalla guerra.
Che ti chiede di schierarti con una delle forze combattenti in campo e, se non lo fai e rifiuti la propaganda di uno o dell’altro, o degli altri, e cerchi di trovare notizie sul terreno e di verificarle, il rischio è ancora più grande. Ma si può rinunciare a fare informazione? Penso che molti di noi abbiano rinunciato, pur senza ammetterlo. Se noi guardiamo il panorama mediatico italiano (all’estero è in parte diverso), vediamo che sempre più spesso i giornalisti vanno al seguito degli eserciti, per problemi di sicurezza, dicono, anche se l’andare con i soldati non è una garanzia di immunità. Alcuni giornalisti televisivi americani sono rimasti uccisi o feriti gravemente quando il mezzo su cui viaggiavano è saltato su un ordigno.
Comunque, i giornalisti che non sono al seguito dei militari non sempre vanno sul terreno alla ricerca delle notizie, spesso restano in albergo ad aspettare di sapere cosa succede dai collaboratori locali, che sono anche loro parte in causa e poi, comunque, rischiano come i giornalisti stranieri. Si può far rischiare qualcun altro al nostro posto? Il numero degli operatori dell’informazione morti e sequestrati in Iraq dal 2003 al 2010 ha superato qualsiasi record: 230 giornalisti uccisi (la maggior parte iracheni), 77 rapiti dei quali 23 uccisi, 40 liberati e altri 13 ancora sotto sequestro o comunque scomparsi.
Da allora il sequestro di giornalisti è diventato un mezzo di ricatto, un’”arma di guerra” di cui si fa uso sempre più frequentemente nei luoghi di conflitto. Fare informazione diventa, così, una sfida contro i tentativi di inquinamento dell’informazione stessa, difficile da vincere, e lo abbiamo visto nella guerra in Libia.