ETICA

Sul testamento biologico

La coscienza cristiana e la dignità del morire.
Rosario Giuè

La crisi economia ha rimosso dal dibattito politico e della stampa la questione delle norme sul “testamento biologico”. Le norme sul “fine-vita”, già approvate da un ramo del Parlamento, non dovrebbero essere usate come arma politica per attrarre la legittimazione e i voti di una parte del mondo cattolico. Ma in Italia si ragiona così: “Io ti faccio una legge a immagine e somiglianza dei tuoi desideri culturali e confessionali e tu chiudi gli occhi sull’esercizio del mio potere e sulla conservazione dei miei interessi”. Non si dovrebbe cadere in questa logica mercantile, nemmeno implicitamente. Non si dovrebbe giocare al gioco degli scambi su una materia così che, toccando questioni delicatissime, richiede il massimo di riflessione, di ascolto, di mediazione, di largo consenso. Non si fa una legge sul “fine-vita” a colpi di maggioranza parlamentare, magari. La legge sul “fine-vita” non è una questione di maggioranza politica, né una questione confessionale. Riguarda l’uomo e la donna, la dignità e la libertà delle persone, la dignità del morire di ciascuno, credenti e non credenti. In ogni caso, anche se i cattolici e le cattoliche avessero la maggioranza in Parlamento, non dovrebbero imporre la loro visione agli altri e alle altre su temi che toccano la coscienza. Non sarebbe caritatevole!

Una questione di coscienza
Vi sono dei passaggi nella vita che, come non mai, vanno affidati solo alla nostra responsabilità, alla nostra libertà e coscienza, e nei quali nessuna norma, nessun libro sacro, nessuna autorità, politica o ecclesiastica, si può sostituire a noi, alla nostra scelta intima più profonda.
Quando siamo bambini, per noi rispondono i genitori. Ma, divenuti adulti, assumiamo la nostra responsabilità che nessuno può invadere o assumere al posto nostro. Dio ci accompagna amorevolmente e ci avvolge con la sua grazia, ma lascia a ciascuno di noi il peso della libertà dentro le situazioni storiche nelle quali ci troviamo a dover prendere importanti decisioni.
Anche la coscienza cristiana è una coscienza laica. Una coscienza cristiana non è, infatti, altro che una coscienza umana, solo che pone la fiducia nella grazia di Dio, nella promessa di Dio, una grazia che si inserisce e/o sgorga nella/dalla nostra condizione umana. Non la scavalca né l’annulla, anche nella malattia e nel fine vita siamo affidati a noi stessi.
La libertà di coscienza certamente non può essere un principio in base al quale faccio tutto quello che voglio egoisticamente. È un principio, al contrario, “in base al quale mi sento responsabile del mondo” (Ernesto Balducci). In questo senso la libertà di coscienza non è un capriccio per fare ciò che conviene solo a me. L’esercizio della libertà di coscienza è, semmai, un peso, qualcosa di gravoso, di delicato, appunto, di responsabile. La libertà di coscienza è assumere la propria responsabilità nel mondo tenendo conto, cioè, delle conseguenze delle nostre scelte per gli altri e le altre. Su questa linea si è avviata ufficialmente, dopo secoli di ritardo, anche la Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II affermando apertamente la dignità della coscienza (Gaudium et spes n.16) e la libertà di coscienza e di religione (Dignitatis humanae nn.2-3).
Oggi dobbiamo vigilare per non tornare indietro. Dobbiamo stare svegli affinché la nostra coscienza non appartenga a nessun altro. Non allo Stato o a un medico o al ministro del culto.

Una questione di dignità
Di fronte alla malattia, siamo chiamati certo responsabilmente a lottare, a far quanto è nelle nostre possibilità per arrivare alla guarigione. Dobbiamo chiedere molto alla medicina, perché è un bene essere liberati, per quanto è possibile, dal dolore. Il dolore e la sofferenza non vanno esaltati con una spiritualità sacrificale! Ma il “voler combattere a ogni costo contro la morte è privo di senso, e da rimedio si trasforma in tormento” (Hans Kung).
Oggi, lo sappiamo, i processi scientifici e tecnologici permettono di controllare molto più di prima i processi vitali. E la tecnica, addirittura, tende “a servirsi dell’uomo, lasciandosi alle spalle colui che, invece, crede di servirsi della tecnica” (Emanuele Severino). Ma i processi artificiali non si possono sostituire alla responsabilità umana personale.
Anche le norme giuridiche, come la tecnica, sono davvero inadeguate quando vogliono intervenire su meccanismi delicati e complessi come quelli della vita e della morte e che riguardano la coscienza. La legge, che in campo economico può per esempio servire a difendere il più debole in una contrattazione, nel caso della vita, dei sentimenti della vita, della sfera più intima della vita, può diventare una sopraffazione.
Nessun uomo può essere costretto a vivere a ogni costo, prigioniero delle scoperte scientifiche e tecnologiche. Sta al paziente o alla paziente decidere, dopo essersi adeguatamente informati, se farsi operare ancora una volta o se sottoporsi a determinate cure.
Il malato e i suoi familiari non possono essere consegnati al medico “come all’esecutore di una impietosa volontà legislativa che cancella la rilevanza della volontà degli interessati” (Stefano RODOTA’). Se così fosse, la legge non sarebbe a servizio della coscienza e responsabilità della persona, ma sarebbe soltanto uno strumento autoritario, figlio di una logica fondamentalista sul piano religioso, allea-ta di uno stato etico.
È importante partire dalla realtà, non dalle ideologie come si tende a fare oggi. Il prolungamento artificiale della vita può apparire un peso, non un segno di amore. Del resto, la vita non può essere solo un vivere biologico-vegetativo.
La medicina altamente tecnologizzata, se lasciata sola, porta il malato terminale nell’isolamento e tutto viene spersonalizzato. Per questo è importante un’opera di accompagnamento del malato con piccoli gesti o anche con il silenzio carico di amore. Molti malati vogliono tornare nella propria casa, quando è possibile, per vivere le ultime fasi della vita lì dove hanno molti ricordi, dove sono cresciuti, dove si sentono al loro posto.

Una questione spirituale
Si dice: “La vita è dono di Dio”, ma la vita è anche compito. Ci è donata come compito responsabile. Agendo responsabilmente, anche nel “fine vita” si può agire davanti a Dio, con l’aiuto di Dio, chiedendo la forza e la grazia a Dio, non contro Dio.
Si dice: “Dio ci ha dato la vita egli solo ce la può togliere”. Ma quale è la fine della vita stabilita da Dio? Non si può ridurre la volontà amorevole e misericordiosa di Dio a una vita biologica frutto di tecnologia e di macchine. Che vuol dire che dobbiamo attendere la morte “naturale” che Dio ci dà? Dio interviene “naturalmente” anche quando non si intende ricorrere alle cure straordinarie e accanite.
Come cristiani sappiamo che Dio ci affida la possibilità di orientare la nostra vita anche verso una morte dignitosa: un congedo dignitoso da questa vita dell’uomo e della donna, senza disperazione, in umiltà e attesa fiduciosa, del morire in Dio. Il testamento biologico è solo lo strumento per esercitare la nostra responsabilità senza coercizioni esterne, anche nell’affidarsi finale a Dio.

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