Custodi del creato
Parlare di salvaguardia del creato significa anche riconsiderare alcuni testi centrali delle Scritture ebraico-cristiane, a partire dai primi due capitoli della Genesi, per comprendere quanto ampio sia il mutamento d’approccio che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Da una lettura di Gen. 1,28 tutta centrata sul tema della vocazione al dominio sulle creature che sarebbe stato affidato all’uomo, immagine di Dio – una lettura che a partire da F. Bacone è spesso stata utilizzata per legittimare la pratica tecnologica – l’esegesi più recente è passata piuttosto a sottolineare altre dinamiche. Da un lato, infatti, si è compreso che tale dominio non va letto in termini di sovranità assoluta, ma piuttosto sulla base dell’immagine del re-pastore, chiamato a prendersi responsabilmente cura del popolo. Dall’altro anche l’immagine di Dio non va interpretata come legittimazione del dominio umano, ma come qualificazione della forma in cui esso deve realizzarsi e orientamento normativo: nel segno della manifestazione della misericordia provvidente rivolta a tutte le creature, nel segno di quella mitezza delicata che caratterizza l’agire del Creatore. Soprattutto, poi, è emersa in primo piano tutta la rilevanza dell’altro racconto di creazione (quello di Gen. 2), che pone al centro la considerazione della duplice vocazione dell’uomo – a coltivare e custodire il giardino – in un contesto che accentua con forza il suo radicamento sulla terra e la sua prossimità alle altre creature. Ben più che di dominio, insomma, al centro sta piuttosto la custodia della terra, affidata agli esseri umani perché ne abbiano cura e ne condividano la benedizione con le altre crea-ture. Gli esseri umani sono gli oikonomoi (stewards) della casa della vita, chiamati ad abitarla e a gestirne con sapienza le risorse.
Tali temi acquistano un’ulteriore rilevanza nell’orizzonte neotestamentario, nel momento in cui la creazione viene pensata come realizzata in Cristo (Gv. 1; Col. 1) e destinata a un compimento escatologico cui lo stesso Spirito la conduce (Rom. 8,19 ss), in attesa della realizzazione della presenza di Dio “tutto in tutto” (I Cor. 15, 28). Sono elementi che stanno d’altra parte in continuità con l’esistenza di Gesù, col suo parlare in parabole, con la sua cura per la creazione, con l’invito a guardare i gigli del campo e gli uccelli del cielo, con l’esortazione alla fiducia nel Padre Creatore, che dona libertà dalla preoccupazione per l’indomani, permettendo l’assunzione coraggiosa di nuovi stili di vita (Mt. 6, 26-33). Gesù appare come la sapienza del Padre, che condivide saggezza con gli esseri umani, invitandoli a un’esistenza di sobria felicità nella creazione, in attesa della piena manifestazione della sua bontà e della sua verità.
Proprio in tale orizzonte emergono alcuni interrogativi sul valore e il significato dell’accentuazione teologica della centralità umana nel creato. Una teologia cristiana – per quanto ecologica voglia essere – non potrà, infatti, in alcun modo rinunciare a sottolineare il ruolo singolare dell’uomo e la sua dignità: egli è il partner scelto da Dio, la Sua immagine, cui Egli indirizza la Sua parola, colui che è capace di rispondervi nel segno della libertà. Non è, però, l’unico destinatario del Suo amore provvidente, né l’unico coinvolto nella Sua alleanza: quello biblico è un antropocentrismo della responsabilità e della relazionalità, attento al radicamento della singolarità umana in quella casa comune che è la creazione. Tale realtà antropologica trova un’espressione simbolica nella figura di Noè (Gen. 7-9): solo a lui e alla sua abilità tecnica di carpentiere Dio affida la costruzione dell’arca, che ha però il suo senso, il suo valore, il suo scopo nella salvezza di tutti i viventi. Non a caso, l’alleanza post-diluviana affidata allo stesso Noè coinvolge tutti i suoi discendenti, come pure i viventi presenti con lui sull’arca (Gen. 9, 8-16): è un’indicazione importante per un’etica della responsabilità intergenerazionale e attenta anche alle altre specie, ma anche la sottolineatura della fondamentale responsabilità di quei soggetti umani che, ad ogni generazione, sono chiamati a farsene carico.
Sono prospettive al cui incrocio si disegna un vero evangelo della creazione: siamo ospiti, gratuitamente accolti su una terra donata, della quale non possiamo dirci padroni, né considerarci legittimati a qualunque uso e abuso. Il creato appare piuttosto come la casa della vita benedetta, come il giardino in cui siamo collocati, per vivere, gioire, lavorare. Giustamente Giovanni Paolo II ha colto in esso “quella prima originaria donazione delle cose da parte di Dio” (Centesimus Annus 37), fondante e ricca di senso, che sta a monte di ogni operare intramondano. Ciò non orienta in alcun modo a una considerazione della creazione come natura immodificabile, rispetto alla quale l’intervento tecnico sarebbe sempre in qualche misura indebito: la creazione non è divina, pur essendo da Dio, ed è essa stessa coinvolta in una dinamica orientata al compimento escatologico. Questo appare ancor più chiaro nel momento in cui ci volgiamo a pensarla in quel quadro evolutivo, dinamico, che si estende tra il Big Bang e le traiettorie indicateci da Darwin, cogliendola così in una condizione di continuo mutamento, in cui si inserisce anche la stessa azione umana. Ciò che va salvaguardato è la vivibilità della creazione entro il mutamento: siamo esseri culturali, che “per natura” sono “trasformatori di natura”, ma anche chiamati ad assumere nella nostra libertà il senso del limite, commisurando il nostro agire alla finitezza della terra. O, per dirla nel linguaggio di Gen. 2 siamo chiamati a coltivare il giardino, custodendolo nella responsabilità.
È questo, dunque, l’orizzonte, profondamente rinnovato, che la teologia cristiana della creazione ha riscoperto in questi decenni e che – lo evidenziano le ultime righe – interpella direttamente anche la riflessione più direttamente orientata all’etica. Emerge, infatti, soprattutto la prospettiva di una responsabilità a vasto raggio in cui l’attenzione per le generazioni future (giustizia intergenerazionale) si intreccia con la cura dei beni comuni per il presente (giustizia intragenerazionale), in cui l’ascolto del grido della terra si intreccia con l’attenzione per quello dei poveri.