Desiderare la conversione
Chi vede quanto sia insostenibile e iniqua la società che abbiamo costruito sinora non può che guardare all’educazione come alla via cruciale per il cambiamento. Un’educazione finalizzata a generare pace e giustizia. Ma nella riflessione su questo compito bisogna evitare di essere generici. Non è molto utile evocare questo o quel significato dell’educare, senza precisare a quale contesto si fa riferimento, a chi ci si rivolge, con quale metodo, con quali energie. Insomma, si tratta di specificare le condizioni concrete di un’azione simile e di rendersi disponibili ad attuarle.
Liberare le persone
La prima condizione per educare promuovendo pace e giustizia sta nel leggere il nostro presente, giungendo a vedere chiaramente quanto le logiche dei sistemi organizzativi vigenti oggi nella società siano stolte e inique. Non si può mettere il vino nuovo in otri vecchi (Mc 2, 22; Lc 5, 37-38) e, dunque, non si deve nemmeno provare a conformare le nuove generazioni agli imperativi del meschino sistema di sopravvivenza (poiché non è nemmeno definibile un sistema di vita) edificato con il nome di globalizzazione. Al contrario – giacché le logiche politiche, economiche e sociali dominanti sono palesemente rovinose – è necessario permettere ai giovani di diventare se stessi cambiando il mondo. Educare non significa costringere qualcuno ad adattarsi a quello che trova. Educare significa liberare le persone, consentendo così la gestazione di una società nuova da parte delle persone liberate.
La seconda e conseguente condizione per educare davvero sta nel rendersi disponibili alla conversione. Chi vuole fare la propria parte per sviluppare l’educazione deve convertirsi e lasciarsi convertire. Se una società è così persa a se stessa da cercare ancora nel denaro e nella competizione la sua via di salvezza, se le nuove generazioni figurano tra le prime vittime sacrificali di questo sistema, allora chi è adulto deve desiderare a imparare, a esistere e ad agire in modo inedito. Un modo che sia diverso da tutto quello che in questi decenni abbiamo ritenuto ovvio e ragionevole. Se una comunità di adulti si converte, saprà anzitutto ascoltare e raccontarsi, divenire ospitale, rallentare il proprio ritmo quotidiano per condividere tempo ed esperienze con gli altri. Rifiuterà di essere un agglomerato casuale di individui flessibili e competitivi. Disprezzerà la libertà di licenziare gli altri, in tutti i sensi, e al contrario sarà pronta ad assumere fino in fondo i compiti dell’azione responsabile. Se un adulto e se una comunità non danno prova della capacità di cambiare, di convertirsi, di portare frutto, allora sono come il fico sterile di cui Gesù si sdegnò (Mc 11, 13-14).
I soggetti
La terza condizione chiede di individuare i soggetti concreti dell’educazione. Qui mi rivolgo alle comunità cristiane, alla stessa Chiesa cattolica, alle sue diocesi, alle sue parrocchie. Queste comunità non devono forse rinnovare la loro disponibilità al Vangelo? Non devono aprirsi di nuovo e meglio alla gioia e alla responsabilità della conversione? Non possono rivendicare la continuità impeccabile della tradizione o del magistero della loro dottrina. Devono attingere nuovamente al magistero di Gesù, al magistero del Vangelo. In pratica occorre riunirsi davvero come popolo, al di là delle appartenenze particolari e delle preferenze soggettive. Ritrovarsi, territorio per territorio, ad ascoltare la Parola di Dio. Per lasciarsi leggere da questa Parola, quindi per leggere insieme la sua rivelazione e nel contempo l’appello che viene dalla realtà storica e dalla vita. Chi legge la Scrittura senza leggere l’esistenza e la storia comune, in effetti, non legge e non ascolta. Rimane sordo e come pietrificato.
Da questa lettura convergente, se sperimentata con il cuore aperto e in forma veramente comunionale, le persone e le comunità saranno rigenerate. Finalmente vedranno che i cristiani non possono schierarsi a difesa di un sistema economico, sociale e politico così iniquo. Non possono essere né moderati né di “centro”. Non perché siano estremisti, bensì perché avranno imparato la via della fedeltà. Diventare fedeli significa conformare il proprio stile di vita al Vangelo. Scaturisce da qui un’azione civile e storica dei cristiani che umilmente possa contribuire alla vita pubblica, senza ricadute nell’integrismo o nella sete di potere e senza presentarsi come salvatori. Soltanto da questa dinamica di conversione, che ai tempi del Concilio Vaticano II attirò sulla Chiesa la stima e la speranza di tutto il mondo, saranno generati educatori credibili e cittadini responsabili, capaci di aiutare l’umanità a uscire dalla tirannia dell’avidità universale.
Metodo e strumenti
La quarta condizione è un metodo adeguato. Il metodo per questa azione educativa non implica la creazione di spazi separati: non ha senso chiedere finanziamenti per la scuola cattolica e non muovere un dito in difesa della scuola di tutti. I cristiani devono essere lì dove tutti vivono e si confrontano, alimentare dinamiche di comunione, smettendo di temere che ciò significhi perdere l’“identità”. Poiché la loro identità non è altro che il servizio, non è un “tesoro geloso” (Fil 2, 6) da trattenere per sé considerando gli altri come avversari. Il metodo autentico dell’educazione assume la pace e la giustizia come spirito, come stile, come dinamismo quotidiano delle relazioni e delle azioni. Ecco perché non porta qualcuno alla pace e alla giustizia, ma opera nella pace e nella giustizia. Non sono mete remote, a cui pervenire chissà con quali strumenti. Sono esse stesse il metodo, il modo, lo stile, il clima vitale dell’educare.
È un metodo che si attua con il rispetto della dignità di ognuno, con la nonviolenza, con l’ascolto, con la fiducia in ognuno, con la logica della condivisione della cooperazione. Un metodo che punta a far fiorire l’umanità delle persone, alla fraternità e alla sororità concrete. La tensione essenziale dell’educare si accende a partire dal riconoscimento che la vita ha senso. Quando si arriva insieme sino a questa soglia, poi non si può non vedere che il senso della vita, la sua riuscita e la sua pienezza implicano il decentramento da se stessi, la gratuità del donarsi, la pratica quotidiana della giustizia. Dove veramente giusto è ciò che si attua secondo il criterio della dignità e del bene comune. È ciò che guarisce, anziché colpire, ciò che abbraccia, anziché escludere, ciò che rinnova la vita, anziché mortificare.
Le comunità potranno educarsi, educare, essere educate (le tre modalità vanno sempre insieme) se assumeranno il metodo della giustizia verso tutti e, situazione per situazione, avranno il coraggio di riconoscere ciò che va cambiato, promuovendo una forma di convivenza più adeguata. Se in una società disperata come la nostra le comunità cristiane si risollevassero, mosse dal desiderio di conversione e di comunione con l’umanità e con il creato intero, questo sarebbe ovunque un impulso luminoso e indelebile, decisivo per uscire insieme dalla crisi di civiltà e di senso che ci colpisce.
L’amore del Padre
Ricordo, infine, la condizione ultima, che in realtà è la prima. Non possiamo fabbricarla e produrla, possiamo solo aprirci alla sua azione su di noi. Con quale energia potremo vivere la conversione e l’impegno educativo, l’ospitalità e la cura per la giustizia? Questa speciale condizione dell’energia è data nell’amore del Padre di Gesù. L’energia del cambiamento è data dall’amore vissuto al modo rivelato da lui. Chi aderisce a questo amore, portando nel cuore gli stessi sentimenti di Gesù e conformandosi a questo modo di amare, porta frutto. E allora la tessitura della relazione tra le generazioni non sarà solo quella propria dell’educazione, sarà eminentemente quella di una festa, dove ciascuno porta la sua storia e la sua esperienza a confluenza nello stesso cammino di nascita del mondo rinnovato. In quello che chiamiamo educazione è in gioco la salvezza, la liberazione della storia da tutto ciò che ancora impedisce il pieno compimento della creazione.