ORTODOSSIA

Nel rispetto dei cammini

I rapporti con Roma, i problemi degli uniati, la presenza nel Cec.
Un percorso nel rapporto tra Ortodossia ed Ecumenismo.
Luigi Sandri

Il rapporto delle Chiese ortodosse con l’ecumenismo – e, in tale contesto, con la Chiesa di Roma – è stato, ed è, variegato; non si può quindi darne una valutazione semplificata. Per flash, perciò, qui parliamo solo di alcuni “casi” di un problema assai vasto.

La prima svolta
Negli anni venti il patriarcato ecumenico di Costantinopoli fu pioniere tra le Chiese che sollecitavano una riconciliazione tra i Cristiani divisi da secoli. E quando, nel 1948, ad Amsterdam nacque il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec), lo stesso patriarcato fu tra i fondatori del Cec. In questo ambito si pongono i rapporti con Roma. Freddissimi nella prima metà del Novecento (ma tali erano da mille anni, salvo eccezioni, come al Concilio di Firenze che nel 1439 formalizzò un’effimera riconciliazione Oriente-Occidente), cambiarono dopo che nel 1958 divenne papa Angelo Giuseppe Roncalli. L’allora patriarca Athenagoras I non si incontrò con Giovanni XXIII e, tuttavia, tra i due si creò una simpatia personale ed ecclesiale. Rappresentati del patriarcato furono inviati al Concilio Vaticano II come “osservatori”.
(c) www.orthodoxworld.ru Nel gennaio 1964, a Gerusalemme, Paolo VI e Athenagoras si incontrarono. Era la sglaciazione, che il 7 dicembre 1965 (vigilia della conclusione del Vaticano II) portò alla reciproca cancellazione delle scomuniche che le due Chiese si erano lanciate nel 1054. Il “dialogo della carità” continuò e, nel 1967, Paolo VI visitò Istanbul, e Athenagoras Roma. Poi, nel 1979, Giovanni Paolo II incontrò il patriarca Demetrios, nella sua sede, avviando il “dialogo teologico” con la creazione di una Commissione teologica tra le Parti.
Partito bene, questo dialogo cominciò a incrinarsi agli inizi degli anni novanta, per bloccarsi quasi del tutto nel 2000. Motivo? La questione degli “uniati”. Con tale parola, che ha un sapore negativo, gli Ortodossi designano i Cattolici di rito orientale (bizantino, armeno, alessandrino…).
Con modalità cangianti da caso a caso, dal secolo XVI all’Ottocento “parti” di Chiese ortodosse – e cioè vescovi, preti e laici – si sono unite a Roma riconoscendo l’autorità papale. Gli Ortodossi considerano questo “passaggio” come un tradimento, un “cavallo di Troia” escogitato dai papi e dalle potenze occidentali cattoliche (la Repubblica di Venezia, la Francia, gli Asburgo) per minare dall’interno l’Ortodossia. Essendo ben difficile, per la gente comune, infatti, distinguere una liturgia “ortodossa” e una greco-cattolica.
I Cattolici di rito orientale (o greco-cattolici, come essi chiamano se stessi nell’Europa dell’Est) contestano la tesi ortodossa: sostengono di avere solamente esplicitato una “unione” che in realtà non era mai stata realmente distrutta; o di aver fatto una scelta ecclesiale, di coscienza, senza pressioni politiche. Nella Commissione cattolico-ortodossa il nodo “uniate” fu affrontato di petto a Balamand (Libano) nel 1993. Allora si affermò che gli uniati “attuali” dovevano essere rispettati, ma precisando che il metodo uniate non poteva in alcun modo essere modello per la futura riconciliazione tra Ortodossia e Roma. Di fatto, poi, le due parti diedero una interpretazione differenziata di Balamand; il contrasto si aggravò tanto che la nuova “plenaria” della Commissione mista, riunitasi nel 2000 a Baltimora, praticamente fallì, proprio per l’insanabile diversità di pareri sul problema uniate.

La crisi degli anni Novanta
La Chiesa russa e altre Chiese ortodosse dell’Est europeo entrarono nel Cec (Consiglio ecumenico delle Chiese) solo nel 1961, a New Delhi, alla terza Assemblea generale del Consiglio. Per una trentina d’anni non vi furono particolari problemi ma, alla metà degli anni novanta, tutto cambiò. A far da detonatore alla nuova situazione fu quanto accadde in concomitanza, o in conseguenza, al crollo dei regimi socialisti esteuropei, soprattutto in Urss. Profittando della nuova situazione, molte Chiese occidentali – la romana, ma non solo; e poi svariate “Nuove religioni cristiane” (sbrigativamente chiamate “Sette”) – iniziarono a inviare personale in Europa dell’Est. In molti casi, anche in ambito cattolico, si parlò di “missione” e “missionari”: locuzione che, soprattutto in Russia, fu sentita come offesa intollerabile, perché – anche nella mentalità della comune gente ortodossa – significava che per mille anni la Russia era stata un Paese “vuoto di Cristianesimo”.
È in tale contesto che molte Chiese ortodosse pensano che Chiese occidentali pur aderenti al Cec mirino di fatto a espandersi nell’Europa dell’Est, a scapito dell’Ortodossia. E, ancora e di più, l’Ortodossia nel suo complesso sostiene con insistenza crescente che il Cec sia in realtà completamente dominato dall’“ ala protestante”. Nel Consiglio, nelle sue Assemblee generali – questa l’accusa – si discutono temi legati alle problematiche occidentali (il ruolo della donna nelle Chiese, i ministeri femminili) e si ignorano i temi cari alla teologia ortodossa, come il monachesimo o la venerazione delle icone. Conseguenza: negli anni 1997-98 le Chiese di Georgia e di Bulgaria abbandonano formalmente il Cec. Nel dicembre ’98 si tiene ad Harare (Zimbabwe) l’VIII Assemblea generale del Cec. Il grande incontro è praticamente dominato dal tema “Ortodossia”. Gli ortodossi rilevano che, con il sistema di rappresentanza e di voto in vigore, le Chiese ortodosse (e Antiche orientali) saranno sempre, in linea di principio, minoranza. Esse, infatti, nell’insieme, sono una trentina, e non cresceranno; quelle protestanti sono invece variegate, e possono sempre crescere.
Dunque, con 342 Chiese membri del Cec, “costituzionalmente” le ortodosse saranno comunque minoranza. E sì – notarono, ad Harare, i rappresentanti del patriarcato di Mosca – che la Chiesa russa, con i suoi 80100 milioni di fedeli, non solo è la più forte, per numero di fedeli, tra le Chiese ortodosse, ma anche è la prima tra tutte le Chiese del Cec. Perciò, dissero gli Ortodossi, o il Cec cambia sostanzialmente il suo “ethos”, il suo organigramma e il suo modo di procedere, o noi lo abbandoneremo in massa.
Per superare la crisi, l’Assemblea stabilì che il Comitato centrale (Cc, il “parlamentino” di 150 membri che, tra un’Assemblea e l’altra rappresenta la massima autorità del Cec) nominasse una commissione mista per affrontare globalmente il problema. In effetti la commissione – 30 esponenti ortodossi, trenta del Cec – fu istituita dal Cc nel ’99. Essa ha lavorato sodo e, infine, ha presentato un suo rapporto che nel 2002 è stato approvato dal Comitato centrale, ove gli Ortodossi si sono detti soddisfatti della svolta. In sostanza, la proposta è che le decisioni del Cec – a tutti i livelli – non siano prese a maggioranza, ma “per consenso”: cioè discutendo fraternamente fino a che non si raggiunga un sentire comune. Questa scelta garantisce gli Ortodossi, ma potrebbe anche portare alla paralisi. Comunque, il nuovo “organigramma” del Cec sarà attuato completamente nella futura Assemblea generale, la IX, programmata per il 2006 a Porto Alegre.

Il contrasto Mosca-Roma
A metà degli anni Novanta la Chiesa ortodossa di Antiochia (ma il suo patriarca risiede a Damasco), e la Chiesa melkita – uniate, nata dal suo seno nel Settecento – sono state sul punto di raggiungere un accordo storico: la piena riconciliazione. Era, questo, lo sbocco di un clima di amicizia e collaborazione in atto ormai da anni. Il passo finale non è stato compiuto, anche perché Roma non

Ecumenismo
Un cammino ancora lungo.
Dalla divisione del 1054 all'abbraccio tra Paolo VI e Atenagors. Ma i problemi aperti sono ancora molti.

Storicamente, per “ortodosse” si intendono le Chiese di origine, o di area, bizantina. Esse sono “autocèfale” (indipendenti), e dunque regolano ciascuna autonomamente la propria vita interna, e le nomine dei vescovi e del patriarca o dell’arcivescovo-capo. In linea di principio, in ciascuna Chiesa l’autorità è esercitata collegialmente. Il patriarca di Costantinopoli non è il “papa” degli ortodossi, ma solo il “primus inter pares” tra i gerarchi ortodossi.
Pur nella loro reciproca e rispettata libertà di azione (che però talora – come, negli anni novanta, nel caso dell’Estonia – apre aspri contenziosi per definire lo status canonico di una Chiesa ortodossa locale), le Chiese ortodosse sono legate tra loro da saldi vincoli di comunione eucaristica ed ecclesiale, avendo come base comune di fede e di disciplina le Scritture, i Concili ecumenici del primo millennio e poi la tradizione gelosamente custodita.
Come autocoscienza ecclesiale, le singole Chiese ortodosse, e tutte insieme come “sorelle” formanti l’Ortodossia, considerano se stesse la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” proclamata nel Credo niceno-costantinopolitano – cioè formulato nel Concilio ecumenico di Nicea (325) e di Costantinopoli (381).
Nel primo millennio Roma (latini) e Costantinopoli (bizantini) rimasero in comunione. L’irreparabile divisione tra loro avvenne nel 1054, con la reciproca scomunica; lo strappo si rafforzò, psicologicamente, dopo che nel 1204, in occasione della IV crociata, i latini – i veneziani, tra essi – saccheggiarono Costantinopoli.
Paolo VI, e il patriarca Athenagoras con il suo sinodo, nel 1965 abolirono le scomuniche di nove secoli prima. Tuttavia le due Parti non hanno ristabilito la comunione eucaristica. Dal punto di vista dottrinale, il problema di fondo che divide l’Ortodossia dalla Chiesa cattolica è la questione del papato: gli ortodossi rifiutano i dogmi sul primato pontificio e l’infallibilità papale sanciti dal Concilio Vaticano I nel 1870; e ritengono il Concilio ecumenico la massima autorità nella Chiesa. Al vescovo di Roma riconoscono solo un primato di onore.
Oggi, ad avvelenare i rapporti tra Ortodossi e Cattolici vi è soprattutto la questione degli “uniati”. Con tale aggettivo gli Ortodossi qualificano quei gruppi di vescovi, preti e semplici fedeli che, in circostanze varianti da caso a caso, dal secolo XVI al secolo XIX lasciarono la Chiesa-madre ortodossa per “unirsi” a Roma, riconoscendo l’autorità papale. I Cattolici di rito orientale sostengono di essere nati da motivazioni religiose e non politiche, e si considerano quasi una Chiesa-ponte tra Roma e l’Ortodossia; e, in Europa orientale – Ucraina, Romania – chiamano se stessi greco-cattolici. Ma gli Ortodossi ritengono che l’“uniatismo” fu un mezzo subdolo escogitato dai papi, appoggiati da potenze politiche cattoliche, per minare dall’interno l’Ortodossia.
Tuttavia, i rapporti tra il patriarcato ortodosso di Antiochia (con sede a Damasco) e il patriarcato melkita (“uniate”, sorto in Siria dall’altro nel Settecento) sono oggi più che buoni.
Dal punto di vista numerico, la Chiesa ortodossa più potente è oggi quella russa, con 80-100 milioni di fedeli.
Il patriarcato di Costantinopoli, in Turchia, ha oggi meno di diecimila fedeli, mentre a esso fanno diretto riferimento circa due milioni di Ortodossi in Europa occidentale e nelle due Americhe.
Nell’insieme, oggi l’Ortodossia conta circa duecento milioni di fedeli.
L.S.
riteneva sufficientemente riconosciuto nella bozza di accordo il primato papale. Si è trattato comunque di un evento assai importante, che prima o poi tornerà di attualità perché Ortodossi e Melkiti, salvo eccezioni, sono decisi a proseguire sulla strada intrapresa. Negli ultimi dieci anni sono invece peggiorati i rapporti Mosca-Roma. Sullo sfondo il problema uniate che, nel caso, riguarda i greco-cattolici ucraini (unitisi, o riuniti a Roma nel 1595-96). La crisi, e poi il crollo dell’Urss ha favorito il riemergere pubblico degli uniati (messi fuori legge, sotto Stalin); ne è seguito un aspro contrasto tra uniati e ortodossi per la spartizione e il possesso di chiese ed edifici, rivendicati dagli uni e dagli altri. La questione si è aggravata perché quella che era un’unica Chiesa, legata a Mosca, si è suddivisa in tre tronconi: Chiesa ortodossa ucraina – la più numerosa – legata alla Chiesa russa; Chiesa autocefala ucraina; Patriarcato di Kiev.
Nel giugno 1997 era pronto il programma per un incontro tra il papa e il patriarca Aleksij II, a Graz, alla vigilia della seconda Assemblea ecumenica europea. Ma, il santo Sinodo della Chiesa russa infine bocciò l’iniziativa, sempre accusando Roma di sostenere gli uniati e favorire il proselitismo cattolico in Russia. Quando, nel 2001, il papa manifestò l’intenzione di andare a Kiev e a Leopoli, Aleksij chiese al pontefice di non effettuare tale viaggio; ma Giovanni Paolo II lo compì, incontrando anche i capi delle Chiese ortodosse ucraine che Mosca considera scismatici.
Papa Wojtyla nel 2002 ha elevato a diocesi le amministrazioni apostoliche della Russia: scelta pastorale, secondo Roma; un altro modo per fare “proselitismo” a spese dell’Ortodossia, secondo il patriarcato. Talune accuse di “proselitismo” lanciate dagli Ortodossi ai Cattolici sono insostenibili; altre, invece, sono fondate. Del resto, chi ha vissuto a Mosca in questi anni ha incontrato preti cattolici che si dicevano venuti in Russia come “missionari”: parola che, a prescindere dalle intenzioni di chi la usa, nella mente di molti Ortodossi cancella mille anni di storia della Chiesa russa. Al fondo, un problema capitale: la Chiesa romana e quella russa si considerano “sorelle”? Se sì, allora certe scelte degli ultimi anni appaiono incomprensibili. Nella sua ampiezza, il rapporto Ortodossia-Ecumenismo è davvero variegato, segnato da luci e da ombre. La speranza è che le prime diradino le seconde. Ma ciò esige una conversione culturale e teologica profonda e continua, a Est e a Ovest.

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