TESTIMONI

Il santo dei poveri

Il ricordo di dom Helder Camara. Anche lui vescovo secondo Concilio. Perché i poveri possano essere considerati soggetti responsabili del cammino della stessa Chiesa.
Al via, per dom Helder, il processo di canonizzazione.
Luigi Bettazzi (Già vescovo di Ivrea e presidente internazionale di Pax Christi)

Conobbi dom Helder Camara al Concilio. Era noto come Segretario dell’Assemblea dei vescovi brasiliani (una delle più numerose del mondo); lì lo incontrai personalmente quando il card. Lercaro, arcivescovo di Bologna, invitato da lui a parlare sulla riforma della liturgia ma impossibilitato ad andare di persona, mandò me, suo vescovo ausiliare, a leggere la conferenza già preparata. Di mons. Camara si sapeva che era molto impegnato perché il Concilio aprisse sempre più la Chiesa ai poveri, non solo come oggetto di attenzione e di aiuto – cosa che la Chiesa sempre aveva fatto nel corso dei secoli – ma come soggetti responsabili del cammino della Chiesa stessa. In realtà, come lui stesso ricorda nel suo libro sul Concilio (in italiano: “Roma, due del mattino” ed. S. Paolo), aveva istituito due Commissioni informali, una di teologi e una di vescovi, la prima che approfondisse il tema della povertà nel mondo e nella Chiesa, la seconda perché elaborasse questi temi per renderli effettivi all’interno della discussione assembleare e nei documenti conciliari. Per questo lo incontrai più volte al venerdì sera, nell’appartamento affittato da p. Gauthier, un sacerdote francese recatosi a Nazareth per costituire un gruppo di amici che facessero, come Gesù, i falegnami (“les compagnons de Jésus”). Il gruppo di vescovi, impegnato per “la Chiesa dei poveri”, non ottenne se non alcuni inserimenti, pur significativi, nei documenti conciliari: importante è

il lungo brano sulla presenza dei poveri nella Chiesa del par. 8 della Costituzione “Lumen gentium”, suggerito dal grande intervento fatto dal card. Lercaro negli ultimi giorni del primo Periodo, in cui si diceva che Gesù Cristo ha tre presenze particolari nella Chiesa: l’Eucarestia, la gerarchia, i poveri. In realtà Paolo VI temeva che un’accentuazione di questo tema, in tempo di guerra fredda tra mondo occidentale e mondo comunista, finisse in qualche modo in politica, e pensava piuttosto di trattarne in una sua Enciclica, che fu la Populorum progressio del 1967, per la quale aveva chiesto, attraverso lo stesso card. Lercaro, il contributo dei vescovi. Così fece per un altro tema “caldo”, come quello del controllo delle nascite (e scrisse l’Humanae vitae). 

Il Patto delle Catacombe

Un ultimo contatto conciliare con dom Helder Camara, lo ebbi il 16 novembre 1965 alle Catacombe di Domitilla (nel suo libro egli parla di quelle di S. Callisto, che sono le più celebri), quando, per iniziativa del gruppo del Collegio belga una quarantina di vescovi si trovarono per lanciare un’iniziativa che, in mancanza di segnalazioni assembleari, impegnasse i singoli vescovi, tornati alle loro sedi, a vivere più semplicemente – come abitazione, come mezzi di trasporto, come stile di vita – a stare più vicini ai lavoratori, ai poveri, ai sofferenti. Noi presenti (la convergenza era stata occasionale) cercammo poi la firma di vescovi amici, così che il card. Lercaro, scelto come tramite più opportuno, potè portare al Papa più di 500 firme sotto quello che fu poi denominato  “il Patto delle Catacombe”. I contatti conciliari e la venerazione di mons. Camara per il card. Lercaro favorirono il continuarsi dell’amicizia. Lo visitai più volte nella sua residenza di Recife, che non era il Palazzo Arcivescovile, dove aveva ospitato uffici e persone, ma la sagrestia di una piccola chiesa (una foto che gli feci mentre salutava sulla porta ha fatto il giro del mondo): diceva che non basta aiutare i poveri, bisogna – come Gesù (1 Cor. 8) – farsi poveri, condividere in qualche modo la loro condizione. E ben due volte è stato ospitato in vescovado a Ivrea: la prima invitato da me per un intervento (e ho tanti ricordi di questo suo parlare, sempre con un sorriso di speranza e con i gesti delle sue mani, che lui per questo definiva “mani napoletane”), e la seconda volta perché aveva bisogno di tre giorni di riposare durante una tourneé in Italia e gli avevano indicato come adatta la mia residenza. Ed è lì dove l’ho conosciuto da vicino, a cominciare dalle “due del mattino” che è nel titolo del suo libro nel Concilio. Mi confidò che il giorno della sua ordinazione sacerdotale aveva promesso al Signore che ogni notte gli avrebbe dedicato un’ora di preghiera. “Non lo raccomanderei a nessuno “ continuava “ma ringrazio il Signore perché mi ha sempre fatto riaddormentare”. 

Mite di cuore 

Pregare, per lui, era verificare le sue giornate di fronte a Dio. Ed era quello che aveva fatto in Concilio, esaminando le giornate vissute o programmando le future di fronte a Dio. E di questo faceva poi relazione alla comunità di preti e laici “di S. Gioacchino” (il nome del Palazzo dell’Arcivescovo di Rio de Janeiro, dove era stato come Ausiliare). Quelle relazioni, poi raccolte in un libro, sono interessanti per farci vedere il Concilio anche nel suo svolgimento, con le valutazioni sulle persone (ad es. di don Dossetti dice, che “è una figura francescana malgrado sia un prete diocesano”) e con i suoi numerosi contatti con Paolo VI, che lo stimava molto. Dom Helder, ad esempio, ricorda quanto aveva insistito con

Paolo VI perché, come aveva fatto una Commissione per attuare la riforma liturgica, ne facesse una proprio per attuare il Concilio: “Come si fa – chiosava – a lasciare il Concilio in mano a quelli che non l’hanno mai voluto!”. Quel contatto continuo col Signore dava un tono a tutta la sua vita, lo rendeva, come il Signore voleva, “mite e umile di cuore”. E così sopportava pazientemente le emarginazioni di cui era fatto oggetto da parte del governo dittatoriale brasiliano e da alcuni settori della Chiesa. Forse per pressione del suo governo, ad esempio gli era stato impedito di partecipare a un congresso romano sulla pace (accanto a Chiara Lubich e  all’Abbè Pierre), dal quale poi, con qualche pretesto, fui escluso anch’io. Con santa rassegnazione accettò che gli venisse dato come successore un vescovo che ha annullato tutte le sue iniziative, allontanando tutti i suoi collaboratori. È questo un martirio, non sanguinoso come quello di mons. Romero, ma costante e penoso perché proveniente  anche da chi condivideva la sua fede  ed il suo ministero. Dom Helder Camara, che tanti veneriamo per le sue virtù e il suo esempio, fu veramente “il Santo della Chiesa dei poveri”.

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