Gli occhi di Bauman
Gli occhi di Zygmunt Bauman si sono spenti un poco alla volta. In verità quegli occhi erano spesso semichiusi. Doveva stringerli per definire al meglio quello che vedeva con il suo intelletto, quello che i dati in suo possesso gli comunicavano, quello che percepiva di un travaglio sociale profondo, manicheo, inquietante: una società triste, parcellizzata, automizzata, bagnata dall’acqua liquida della trasformazione continua, tecno-scientifica, digitale, algoritmica, finanziaria, multitasking. Una società senza più un sole a scaldarne l’immaginazione, senza più una poesia capace di risvegliarne i sensi atrofizzati, senza più un’utopia a dare tepore ai cuori innamorati nella storia.
Bauman sembrava immortale, nonostante l’affanno degli ultimi tempi, nonostante gli anni che oramai correvano verso il secolo (è morto nella sua casa di Leeds in Inghilterra a 91 anni). Ma ogni volta che lo si vedeva, che lo si sentiva, sembrava di ascoltarlo e di sentirlo sempre. Perché Bauman era oramai parte di noi, faceva da contrappunto alla deriva, esprimeva una verità che tutti sentivamo come un paradigma del mondo di oggi e forse di domani. Ci trasmetteva un rumore di fondo come nessuno era in grado di fare.
Quando venne a Bolzano, nel febbraio dello scorso anno insieme al suo grande amico Riccardo Mazzeo (autore insieme a lui di vari libri per le edizioni Erickson), ci portò in dono la disfatta dell’utopia. Ci spiegò candidamente come l’utopia di Thomas More sia essa stessa un’isola rimasta tale nell’evoluzione della storia. Forse è vero che in ogni mappa geografica ci dovrebbe essere l’isola di utopia, come ebbe a dire il buon Erasmo da Rotterdam, ma agli occhi dei cittadini del mondo liquido-moderno quel topos ci deve essere per indicarne l’impossibilità storica, la fine e la sconfitta di ogni u-topia e la vittoria amara di un realismo meccanico, tecnocratico, trasformista, capace perfino di adattare l’utopia di More in una sorta di rappresentazione egocentrica e consumistica del vivere civile.
Così nel tempo della privatizzazione di ogni cosa anche l’utopia può essere privatizzata. In un’intervista a cura di Francesca Celotto, apparsa anche su questo giornale, Bauman disse: “Se chiedessimo all’onnisciente Google (che per molti di noi rappresenta il primo mondo, diverso dal secondo – quello offline – che per misurare se stesso, sebbene non lo faccia, userebbe le eccellenze stabilite dal primo mondo) di ricercare siti riguardanti l’utopia, troveremmo (così come è accaduto a me oggi, 16 gennaio 2016) 57.100,000 risultati. Ma, senza lasciarci scoraggiare da questa cifra astronomica, ci accorgiamo che in cima alla lista, e anche oltre, vi sono elencate agenzie di viaggio, cliniche cosmetiche, o siti per articoli di lusso. L’utopia ha ancora valore per la gente, solo che il suo significato è cambiato. Nel nostro tempo, la parola “u-topia” è stata privata del lemma “topos”, il quale rappresenta un luogo peculiare, specifico e concreto. O, meglio ancora e come io preferisco pensare, è il lemma “topos” che è stato strappato via alla parola “u-topia” (concetto che indica un luogo migliore, ma anche inesistente). Come tanti altri aspetti della nostra vita, l’utopia è stata privatizzata”.
Come la bellezza, che fu il tema di un altro incontro memorabile nell’università di Bolzano nella primavera del 2014. Lì Bauman si confrontò con la celebre pensatrice ungherese Ágnes Heller (amica di lunga data) per dire che non è assolutamente vero che la bellezza salverà il mondo. L’estetica non ha alcun potere salvifico. Le pennellate di Chagall o di Picasso, le pitture di Kandinsky o di Paul Klee fanno bene all’anima, provocano emozioni esaltanti dal di dentro, ma non possono nulla dinanzi al potere distruttivo degli eserciti. E mentre la Heller sosteneva le ragioni di una “promessa della bellezza” (in quanto promessa la bellezza ci salva), Bauman ci metteva in guardia dall’idea che l’estetica potesse avere a che fare con la pace e con la concordia. L’arte, al contrario, vive di violenza, partecipa all’azione trasformatrice con l’impeto della rottura, dello squarcio, dell’antitesi: “Le arti – spiega Bauman nel suo intervento pubblicato da il Margine nel libro “La bellezza (non) ci salverà” – non si sforzano di infrangere un’opinione superficiale, irriflessiva e stupida tramite la bellezza. Lo fanno, invece, tramite la bruttezza dello squallido ripetersi della vita che rappresentano. La vocazione dell’artista consiste nello strappare, come avrebbe detto Milan Kundera, il velo della presunta armonia, disturbare l’imparzialità del giudizio causando in tal modo un sentimento di rabbia contro la ripugnante bruttezza della crudeltà latente celata dietro tale velatura”.
Bauman vedeva nero. E vedeva bene. I suoi occhi semichiusi lo gettavano a capofitto nei gorghi terribili di un tempo pieno di rancore, dominato dal nichilismo, ricattato dalla paura, mosso dall’avidità del consumo, lanciato a mille miglia nel baratro di un conflitto generazionale dagli esiti apocalittici: “Nella nostra società liquido-moderna – diceva – l’industria dello sfratto/sostituzione/smaltimento/evacuazione è una delle poche attività commerciali a cui sia garantita una continua crescita e che risulti immune dalla bizzarria dei mercati dei consumatori”. Il crollo del sistema capitalistico non è ancora finito. La bolla esce da tutte le parti. L’espansione sconfinata ha schiacciato in basso ogni tipo di aspettativa e si sono sempre più compressi gli spazi disponibili per le aspettative del futuro. In una società così parcellizzata, cosi pervasa da un rancore diffuso, come possiamo pensare che ci siano spazi per l’alterità? “Nella nostra società liquida flagellata dalla paura del fallimento e di perdere il proprio posto nella società, i migranti diventano walking dystopias, distopie che camminano (…) Vengono percepiti come messaggeri di cattive notizie”.
Con Bauman se n’è andato uno dei pensatori della società più acuti e più profondi del nostro tempo. La sua produzione è sterminata e ha trovato particolare fortuna in Italia. Le sue analisi ci accompagneranno per molto tempo. Non si potrà fare a meno del suo pessimismo. Chi l’ha conosciuto e ha avuto la fortuna di incontrarlo non dimenticherà mai il suo amore per la vita, l’attenzione alle piccole cose e ai dettagli. Quando si sedeva a un tavolino del bar tirava fuori la pipa o la sigaretta, ordinava un cocktail e sorrideva al silenzio. Piegava la testa per ascoltare una parola, un suono. Ed era felice. Solo allora la frenesia caotica della società liquido-moderna sembrava altrove, lontana. Lui era lì. Uomo. E basta.