ISRAELE

La sindrome del checkpoint

Come si trasforma gradualmente un soldato in un animale.
Testimonianze agghiaccianti su quello che accade nei territori occupati.
Gideon Levy

Il sergente di stato maggiore Liran Ron Furer non ce la fa più a continuare normalmente la sua vita. È assillato dalle immagini dei tre anni di servizio militare che ha trascorso a Gaza, e il pensiero che questa possa essere una sindrome che colpisce tutti quelli che prestano servizio ai posti di controllo non gli dà tregua. Sul punto di completare i suoi studi di design alla Bezalel Academy of Art and Design, ha deciso di lasciar perdere tutto e di dedicare tutto il suo tempo al libro che voleva scrivere [...].
Furer è certo del fatto che quello che gli è successo non sia affatto un caso isolato. Il caso di un ragazzo creativo e sensibile, diplomato alla Thelma Yellin High School of the Arts, che al posto di controllo si è trasformato in una bestia, un sadico violento che picchiava i Palestinesi perché non gli mostravano la dovuta cortesia, che sparava alle gomme delle auto perché gli occupanti ascoltavano la radio a volume troppo alto, che insultava un ragazzino ritardato che giaceva ammanettato sul pianale della jeep, solo perché doveva in qualche modo buttare fuori la rabbia che aveva dentro. Secondo lui, la “Sindrome del checkpoint” (che è anche il titolo del suo libro) trasforma gradualmente ogni soldato in un animale, indipendentemente dai valori trasmessigli dalla famiglia. Nessuno riesce a scampare a questa contaminazione. In un luogo in cui quasi tutto è lecito e la violenza viene considerata un comportamento normativo, ogni soldato sperimenta i limiti dei propri impulsi violenti sulle proprie vittime, i Palestinesi.
Il suo libro, nel linguaggio schietto e volgare dei soldati, ricostruisce gli episodi avvenuti negli anni in cui Furer ha prestato servizio a Gaza (1996 - 1999), anni che – si ricordi – sono stati relativamente tranquilli.
Descrive come, insieme ad alcuni commilitoni, ha obbligato dei Palestinesi a cantare “Elinor”: “Era davvero impressionante vedere questi Arabi cantare una canzone di Zohar Argov, sembrava un film”; parla delle emozioni che i Palestinesi gli suscitavano: “A volte questi Arabi mi disgustavano davvero, specialmente quelli che cercavano di essere servili con noi, i vecchi in particolare, che arrivavano al posto di controllo con quel loro sorriso stampato in faccia”…; e le reazioni che queste emozioni scatenavano: “Se ci infastidivano davvero tanto, trovavamo il modo di trattenerli per qualche ora al posto di controllo. Così perdevano un'intera giornata di lavoro, ma questo era il solo modo per insegnare loro qualcosa”.
Descrive come ordinavano ai bambini di ripulire il posto di controllo prima delle ispezioni; del gioco che aveva inventato un soldato di nome Shahar: “Controllava il documento di qualcuno e, invece di ridarglielo in mano, semplicemente lo lanciava in aria. Si divertiva un mondo a guardare l'Arabo correre fuori dalla macchina per raccogliere il suo documento d'identità… per lui era un passatempo con il quale poteva trascorrere anche l'intero turno”; racconta di come avevano umiliato un nano che andava ogni giorno al posto di controllo sul suo carretto: “Lo obbligarono a farsi fotografare sul cavallo, lo picchiarono e lo mortificarono per una buona mezz'ora, e lo lasciarono andare solo quando arrivarono delle auto al posto di controllo. Quel poveretto non se lo meritava proprio”; di come si erano fatti una foto ricordo con degli Arabi sanguinanti e legati, che loro stessi avevano picchiato; di come Shahar aveva pisciato sulla testa di un Arabo, perché l'uomo aveva avuto l'audacia di sorridere a un soldato; di come Dado aveva costretto un Arabo a mettersi a quattro zampe e abbaiare come un cane [...].

Confessione agghiacciante
La più agghiacciante di tutte le confessioni personali è questa: “Mi sono messo a correre verso di loro e ho dato un pugno dritto in faccia a un Arabo. Non avevo mai colpito qualcuno in quel modo e lui cadde sulla strada. Gli ufficiali dissero che dovevamo perquisirlo per cercare i suoi documenti. Gli mettemmo le mani dietro la schiena e io gli misi delle manette di plastica, dopo di ché lo bendammo così che non potesse vedere cosa c'era nella Jeep. Lo feci alzare da terra. Il sangue gli colava sul mento dalla bocca. Lo condussi sul retro della Jeep e lo gettai dentro, sbatté con le ginocchia contro il baule e cadde all'interno. Anche noi ci sedemmo nel retro, mettendo i piedi sulla sua schiena… Il nostro Arabo se ne stava abbastanza buono, semplicemente piangendo sottovoce. Aveva la faccia proprio sul mio giubbotto antiproiettile e, siccome sanguinava e faceva una specie di pozza di sangue e saliva, io mi disgustai e mi arrabbiai al punto che lo afferrai per i capelli e gli girai la testa da un lato. Urlò forte e, per farlo smettere, lo calpestammo sempre più forte. Questo lo calmò per un po', ma poi ricominciò.
Arrivammo alla conclusione che fosse ritardato o pazzo. Il comandante della guarnigione ci informò via radio che dovevamo portarlo alla base. ‘Bel lavoro, tigrotti!' ci disse prendendoci in giro. Tutti gli altri soldati erano là per vedere cosa avevamo preso. Quando entrammo con la Jeep, si misero a fischiare e applaudire forte. Mettemmo l'Arabo accanto alla guardia. Non smetteva di piangere e qualcuno che capiva l'arabo disse che gli facevano male le mani a causa delle manette. Uno dei soldati si fece avanti e lo colpì allo stomaco. L'Arabo si piegò in due e rantolò, e tutti ridemmo. Era divertente… io lo colpii veramente forte al sedere e lui volò in avanti proprio come mi aspettavo. Gli altri urlarono che ero completamente matto e si misero a ridere… mi sentii felice. Il nostro Arabo era solo un ragazzo di 16 anni mentalmente ritardato”.
Nell'attico di sua sorella a Tel Aviv dove vive attualmente, Furer, che ha 26 anni, si presenta come un giovane riflessivo e intelligente. È cresciuto a Givatayim dopo che i suoi genitori sono immigrati negli anni Settanta dall'Unione Sovietica. Prima dell'assassinio di Yitzhak Rabin sua madre era un'attivista di destra, ma lui sostiene che la sua non era una famiglia politicizzata. Furer voleva far parte di un'unità combattente dell'esercito e ha prestato servizio in due corpi giovanili d'élite. Ha trascorso tutto il servizio militare nella Striscia di Gaza.
Dopo l'esercito, come molti altri è andato in India. Scriveva da Goa: “Adesso sono libero. Le pazzesche energie di Goa e i chakra mi hanno aperto la mente [...]. Voi mi avevate piantato in questa puzzolente Gaza e prima di questo mi avete fatto il lavaggio del cervello con i vostri fucili e le vostre marce, mi avete fatto diventare uno straccio senza pensieri”. Ma fu soltanto in seguito, mentre stava studiando a Bezalel, che le esperienze del servizio militare cominciarono davvero a turbarlo.
“Cominciai a capire che c'era uno schema invariabile”, dice. “È stata la stessa cosa durante la prima Intifada, quando io prestavo servizio, che era stato un periodo tranquillo, e durante la seconda Intifada. È diventata una realtà permanente. Ho iniziato a sentirmi molto a disagio per il fatto che di un argomento così insidioso a mala pena si parlasse in pubblico. La gente ascoltava le vittime e loro ascoltavano i politici. Ma una voce che dicesse: ‘Ho fatto questo, abbiamo fatto delle cose sbagliate – dei veri e propri crimini', questa è una voce che non ho sentito. E la ragione per cui non l'ho sentita è una combinazione di repressione – proprio come io stesso l'ho repressa e ignorata – e di profondi sensi di colpa.
“Appena torni dal servizio nell'esercito, la realtà politica e dei media che ti circonda non è pronta ad ascoltare questa voce. Ricordo di essermi stupito per il (c) Peacelink fatto che nessun soldato avesse ancora parlato pubblicamente di questo argomento. Tutto sembrava in qualche modo dissolversi nel dibattito sulla legittimità degli insediamenti nei territori, sull'occupazione – a favore o contro – e nei media non veniva menzionato nulla che fosse legato alla routine del mantenimento di questa occupazione”.

Non un caso isolato
Furer intende dimostrare che si tratta di una sindrome e non di una serie di casi isolati. Questa è la ragione per la quale ha cancellato molti dettagli personali dal manoscritto originale, per sottolineare la natura generale di ciò che sta descrivendo. “Durante il servizio militare, credevo di essere un caso anomalo, perché il mio background era quello dell'arte e della creatività. Venivo considerato un soldato moderato, ma caddi nella stessa trappola nella quale cadono quasi tutti i soldati.
Mi sono fatto trascinare dalla possibilità di comportarmi nel più primitivo e impulsivo dei modi, senza il timore di una punizione e senza alcuna supervisione. All'inizio sei teso, ma quando, col tempo, ti senti sempre più a tuo agio al posto di controllo, allora il tuo comportamento diventa più naturale. La gente sperimenta gradualmente i limiti del proprio comportamento nei confronti dei Palestinesi, e questo diventa gradualmente sempre più malvagio e deviato. Più familiarizzavamo con la situazione, più in fretta arrivavamo alla conclusione – ognuno con i suoi tempi – che eravamo noi a comandare, quelli forti, e man mano che percepivamo il nostro potere, ognuno di noi cominciò a forzare i limiti sempre più, secondo la propria personalità.
Appena il servizio al posto di controllo diventava la routine, ogni forma di comportamento deviato diventava normale. Iniziò con ‘la raccolta di souvenir': confiscavamo i rosari da preghiera, poi è stata la volta delle sigarette, e poi non ci fermammo più. Questo comportamento divenne la norma.
Dopo vennero i giochi di potere. Ricevemmo dall'alto il messaggio che dovevamo dare agli Arabi un'impressione di serietà e deterrenza. A quel punto anche la violenza fisica divenne la norma. Ci sentivamo liberi di punire qualunque Palestinese non seguisse un ‘appropriato codice di comportamento' al posto di controllo. Chiunque ritenessimo non essere sufficientemente educato nei nostri confronti o cercasse di fare il furbo veniva punito duramente.
Durante il servizio militare non ci fu un solo incidente che ci abbia fatto comprendere ciò che stavamo facendo, né che abbia mosso l'intervento dei nostri superiori. Nessuno parlava di ciò che era permesso e di ciò che non lo era. Faceva tutto parte della routine. Visto a posteriori, per me la maggiore fonte di senso di colpa non sono le cose successe al posto di controllo, ma l'episodio alla barriera di Gush Katif, quando abbiamo preso il ragazzo ritardato. È stato in quel caso che ho mostrato il mio lato più estremo. Era la mia occasione per prenderne uno, ciò che più si avvicinava alla cattura di un terrorista, la possibilità di scaricare tutte le pressioni e gli impulsi che si erano accumulati dentro tutti noi. Di sfogarci come volevamo. Eravamo abituati a schiaffeggiare, ammanettare, dare qualche calcio o percossa, e questa era una situazione nella quale era lecito lasciarsi andare completamente. Inoltre, l'ufficiale che era con noi era davvero un violento. Picchiammo il ragazzo davvero forte e, appena arrivammo al posto di controllo, ricordo di essermi sentito davvero orgoglioso.
“Al posto di controllo i giovani hanno la possibilità di comandare, e l'uso della forza e della violenza viene legittimato. Nel momento in cui l'uso della forza diventa lecito, e persino premiato, la tendenza è quella di spingersi sempre più oltre, per sfruttarlo sempre di più. Per soddisfare questi istinti più di quanto la situazione lo richieda. Oggi li definirei istinti sadici [...].
Noi non eravamo criminali o persone particolarmente violente. Eravamo un gruppo di bravi ragazzi, un gruppo di ‘relativamente alta qualità', e per tutti noi – e di questo discutiamo ancora qualche volta – il posto di controllo divenne lo spazio in cui sperimentare i nostri limiti personali. Fino a che punto potevamo essere duri, privi di scrupoli e folli; una follia alla quale guardavamo in senso positivo. C'era qualcosa in tutta quella situazione – essere in un posto abbandonato da dio, lontani da casa, lontani da ogni tipo di sorveglianza – giustificava tutto [...]. Il confine di ciò che era proibito non veniva mai tracciato precisamente.
Nessuno è mai stato punito, semplicemente ci lasciavano continuare. Oggi sento di poter dire che persino i gradi più alti sono consapevoli del potere che hanno i soldati in queste situazioni e di come lo usano. Come potevano non esserlo, quando, più i loro soldati erano folli e violenti, più il loro settore era tranquillo? Il quadro più complesso degli effetti a lungo termine di questo comportamento violento è qualcosa di cui diventi consapevole solo una volta che te ne vai dal posto di controllo. Oggi mi è chiaro come il ragazzo, il cui padre è stato umiliato col più frivolo dei pretesti, crescerà odiando chiunque rappresenti ciò che è stato fatto a suo padre [...].
È del tutto impossibile essere in un simile stato emotivo e tornarsene a casa in congedo e distaccarsi completamente da tutto ciò. All'epoca ero totalmente indifferente ai sentimenti della mia ragazza: ero un animale, anche quando ero in congedo. È qualcosa che ti si attacca addosso anche dopo che te ne sei andato. Ho sperimentato i residui di questa sindrome quando mi trovavo in India: qualcosa che aveva a che fare con il fatto di trovarsi nel Terzo Mondo fra gente di colore, tirava fuori il peggio dell'‘Israeliano cattivo'. O il modo in cui reagisci a un sorriso: quando i Palestinesi mi sorridevano al posto di controllo, mi innervosivo e lo percepivo come una sfida, un'insolenza. Quando qualcuno mi sorrideva in India, mi mettevo subito sulla difensiva.
Ero un soldato medio. Ero il giullare del gruppo. Adesso capisco che ero quello che di solito prendeva il comando nelle situazioni violente. Spesso ero io quello che colpiva per primo. Ero quello che si faceva venire ogni sorte di idee, come quella di sgonfiare le gomme. Adesso suona perverso, ma ammiravamo sinceramente chiunque, inventandosi la scusa che se l'era cercata, picchiasse qualcuno. L'ufficiale che ammiravamo di più era quello che faceva fuoco a ogni occasione. Tutti quelli con cui ho parlato mi hanno lasciato con un grande senso di colpa [...]. Un amico che era sotto le armi con me ha letto il libro e mi ha detto che sì, abbiamo fatto delle brutte cose, ma eravamo dei bambini. E ha aggiunto che è un peccato che io l'abbia presa così male”.

Ha'aretz – 27 novembre 2003

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Traduzione di Sara Crimi – Traduttori per la Pace

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