CINA

Diritti umani e libertà a Pechino

Modernizzare il Paese: è la parola d'ordine della politica cinese. Ma questo non coincide con democrazia e libertà.
I problemi per i credenti.
Francesco Montessori

È di questi giorni (15 Aprile 2004, ndr) la notizia che gli Stati Uniti intendono procedere contro la Repubblica popolare cinese in seno alla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani. Una posizione che il governo di Pechino si è affrettato a denunciare come un'interferenza negli affari interni della Cina. In realtà, l'inasprimento delle relazioni tra Washington e Pechino su un tema sensibile come quello dei diritti umani si colloca nell'ambito più complesso dei rapporti tra le due potenze: in gioco vi sono infatti non solo o non tanto questioni di principio, ma le prospettive strategiche, economiche e politiche di due giganti, destinati probabilmente a segnare le vicende del XXI secolo. Tuttavia, la questione ha un'innegabile rilevanza, soprattutto alla luce degli sviluppi recenti che, in Cina, sembrano segnalare una qualche cauta apertura.

Gli ultimi sviluppi
I lavori dei massimi organismi rappresentativi cinesi (il Consiglio nazionale del popolo e l'Assemblea consultiva del popolo) hanno portato nei mesi scorsi a una revisione della Carta costituzionale che sembra favorire la tutela dei diritti umani e, tra l'altro, avanza il riconoscimento del diritto alla proprietà privata. La questione non è nuova, poiché nei documenti ufficiali si parla di “diritti umani” almeno dal 1991, quando venne pubblicato dal Consiglio di Stato cinese un libro bianco sull'argomento; un tema, inoltre, che apparve nell'agenda del XV Congresso del Partito comunista cinese nel 1997. La revisione costituzionale del marzo 2004 è dunque conseguenza di un dibattito che dura ormai da oltre dieci anni, ed è ben innervato in una politica che mira alla crescita economica della Cina in un contesto di apertura ai mercati internazionali. Se Pechino cerca l'integrazione in un mondo che è ampiamente influenzato dal pensiero liberale e democratico, deve dunque tener conto di un simile modello. La progressione e la gradualità con cui la leadership cinese attuale (composta da esponenti che si sono formati alla scuola di quello che era noto come il marxismo-leninismo-pensiero di Mao) sta affrontando questioni sostanzialmente estranee alla sua tradizione ideologica e politica è comunque degna di attenzione. In questo ambito occorre però evitare approcci specularmente illusori, come il ritenere da un lato inevitabile e certo il progredire in Cina di una tendenza democratica all'insegna della libertà e della tolleranza o, dall'altro, negare ogni trasformazione del sistema socio-politico cinese in nome di una preconcetta diffidenza nei confronti degli attuali detentori del potere.
Ciò che sta prevalendo nella Cina di oggi, infatti, non sembra tanto la lotta tra sistemi contrapposti quanto il tentativo di modernizzare il Paese per renderlo “prospero e potente”, come suona uno slogan che ha accompagnato a partire dalla seconda metà del XIX secolo gli sforzi per evitare il declino del vecchio impero. Prosperità e potenza non sono necessariamente frutto della democrazia e della libertà; ed è probabile che l'attuale leadership cinese cerchi i suoi modelli (se mai cerca un modello) in seno alle esperienze asiatiche di sviluppo, dal Giappone a Singapore. Il paternalismo autoritario di una città-stato come Singapore (abitata prevalentemente da Cinesi) può essere senz'altro più vicino al modo di pensare e di agire dei leader attualmente al potere a Pechino.
L'economia di mercato, la proprietà privata e le regole giuridiche che assicurano certezza agli investitori sono una parte dei sistemi liberaldemocratici; ma la democrazia politica e il complesso sistema di libertà che contraddistingue i Paesi occidentali non sono fino in fondo, e probabilmente non saranno mai, patrimonio dei Paesi asiatici in generale. Lee Kuanyew, il carismatico ex premier di Singapore, ha teorizzato addirittura che in una fase di sviluppo la libertà economica non deve essere associata a quella politica, pena il diffondersi di un “disordine” pernicioso per la stabilità e la crescita. Si tratta di un punto di vista che molti, a Pechino, potrebbero condividere.

La questione religiosa
Un punto di vista che nelle democrazie occidentali si tende invece a rigettare, anche se in forme non univoche. Le élite che incarnano le amministrazioni e gli Stati, in particolare, sono propense ad adottare comportamenti e approcci di tipo realistico, che spesso coincidono con il cinismo. Anche l'atteggiamento degli Stati Uniti (che almeno dal 1976, con la presidenza Carter, hanno inserito nella propria agenda di politica estera la questione dei diritti umani), è in materia sostanzialmente contraddittorio e strumentale.
La difesa della stabilità per favorire la crescita economica sembra dunque essere una priorità per Pechino. Ma quali sono i termini della questione, e quali i limiti che possono essere ritenuti accettabili per non provocare il collasso del sistema? Naturalmente, diverso è il punto di vista di chi, per ragioni ideologiche o per spirito di competizione economica, ritiene conveniente favorire il crollo della Repubblica popolare cinese. Negli Stati Uniti, e soprattutto in certi settori repubblicani che teorizzano il monopolarismo americano, la questione dei diritti umani è brandita come un'arma, con l'intento di utilizzarla contro Pechino con lo stesso spirito che animava la strategia antisovietica di Reagan negli anni Ottanta. Una scelta che dovrebbe essere considerata con prudenza, almeno per le evidenti differenze tra la situazione cinese di oggi e quella del declinante impero sovietico di ieri.
Un elemento chiave per intendere le scelte cinesi nell'ambito dei diritti umani è la questione religiosa. Questo per almeno tre ragioni. Innanzi tutto, come è evidente, perché si tratta di una scelta che rinvia a una fondamentale “libertà” di coscienza individuale. In secondo luogo, poiché si tratta di questione che mette alla prova la stessa società cinese, interessata a una crescente diffusione della religiosità. Infine, poiché la questione religiosa (e in particolare quella connessa ad alcune confessioni minoritarie in Cina, come il Cristianesimo e l'Islam) implica, per Pechino, il rinvio al tema cruciale dei rapporti con l'esterno.
In Cina, secondo dati ufficiali che è difficile valutare appieno (tratti da un “Libro bianco” diffuso nell'aprile del 2002), dovrebbero esserci oltre 200 milioni di credenti; non molti in un Paese di circa un miliardo e trecento milioni di abitanti. Secondo questa fonte vi sarebbero circa 100 milioni di buddisti, l'8% dei Cinesi; vi sono poi varie minoranze religiose, come i musulmani (1,4% della popolazione, vale a dire 20 milioni), i cattolici (0,4%, appartenenti alla cosiddetta Chiesa (c) Amnesty International cattolica patriottica) e una quota più incerta (tra lo 0,4 e lo 0,8%) di fedeli della Chiesa cattolica romana che in Cina non è riconosciuta. In totale, comunque i cattolici cinesi dovrebbero superare i 10 milioni. Questa distinzione tra Chiese “patriottiche” e non-ufficiali vale anche per i protestanti. Tra questi circa l'1% appartengono alle Chiese riconosciute dal governo, con una quindicina di milioni di affiliati, mentre più del doppio (30 milioni) dovrebbero essere i protestanti indipendenti dal regime.

Il controllo del regime
Questi dati potrebbero essere ritenuti del tutto inaffidabili se si volesse evincere che solo il 12 13% dei Cinesi professa un qualche credo religioso. In realtà, accanto alle religioni formali esistono culti tradizionali assai diffusi, che esprimono un palpabile bisogno religioso popolare che si manifesta nei riti e nelle offerte agli antenati, nelle cerimonie per gli “eroi” e per la multiforme schiera dei geni e delle divinità locali. Si tratta di forme religiose che riguardano centinaia di milioni di Cinesi e che, dopo le crudezze della rivoluzione culturale, negli anni ‘60, sono oggi sostanzialmente tollerate in quanto ritenute derivazioni del Buddismo o del Taoismo.
Un'eccezione significativa alla sostanziale tolleranza dei culti popolari è rappresentata dalla Falun Gong, la Ruota della legge. Una setta che fonti governative stimavano, prima della repressione iniziata nel 1999 (quando il Comitato permanente del Consiglio nazionale del popolo mise al bando varie associazioni religiose), in circa due milioni di seguaci, ma che probabilmente coinvolgeva quote assai più significative di popolazione. Oggi la Falun Gong dovrebbe contare ancora su oltre un milione di aderenti.
Anche se la Costituzione cinese del 1982 assicura la libertà di credere (o di non credere), le autorità tendono a mantenere uno stretto controllo sulle attività religiose, apparentemente per impedire la formazione di fonti di autorità alternative al regime; controllo che è esercitato da un organo ufficiale che stabilisce la congruità di ogni confessione a essere riconosciuta. Accanto alle cinque religioni ammesse (Buddismo, Taoismo, Islamismo, Cattolicesimo e Protestantesimo) potrebbero dunque essere accolte altre fedi, purché soddisfino certi requisiti sulla disponibilità di sedi stabili, sulla propria struttura e sulle regole interne, sui seguaci e addirittura sulle fonti di reddito di cui la Chiesa dispone.
Nel 1999 sono stati messi al bando vari gruppi e sette; oltre alla Falun Gong è stata proibita l'attività della Zhong Gong, un movimento magico religioso che fa ricorso alle arti marziali e agli esercizi di qigong, come la setta dei Boxer, attiva in Cina nel 1899-1900. Anche se formalmente i membri di confessioni religiose hanno il diritto di occupare posizioni di responsabilità nelle imprese di Stato e incarichi pubblici, di fatto per questi è richiesta l'iscrizione al partito comunista, e non si può essere comunisti o membri delle forze armate e nel contempo essere seguaci di una religione.
In realtà, una parte significativa dei quadri di partito sembra essere legata a qualche culto religioso, soprattutto al Buddismo e alle varie forme di religiosità popolare, e in alcuni casi si sono avuti esempi di funzionari legati alla Falun Gong.
In realtà la libertà religiosa non è rispettata in Cina, o almeno non lo è in termini soddisfacenti anche se non vi sono più le condizioni di intolleranza del periodo tra gli anni ‘50 e la metà degli anni ‘80. I membri delle confessioni “nonpatriottiche”, cioè clandestine, continuano a essere arrestati, maltrattati, inviati in campi di

Pena di morte in Cina
Secondo i dati resi pubblici da Amnesty International, la Cina è tra gli 83 Paesi che mantengono in vigore la pena di morte. In particolare in Cina la pena di morte è praticata con fucilazione mediante plotone. Almeno 18 sono le esecuzioni registrate nel Paese asiatico nel 2003, secondo una tabella provvisoria (che contiene soltanto dati sulle esecuzioni che Amnesty International è riuscita ad accertare). Nel 2002, le esecuzioni sono state almeno 1060. Sempre secondo i dati in possesso di Amnesty International nel 2001 sarebbero state emesse 4000 condanne a morte e 2500 sarebbero state eseguite.
lavoro mentre vengono chiusi dalla polizia templi e luoghi di culto non autorizzati (e tra questi anche quelli predisposti nelle abitazioni dei fedeli). Tuttavia, vi sono in Cina condizioni non omogenee, e l'attitudine delle autorità locali è spesso determinante: in alcune aree, infatti, i membri delle Chiese clandestine godono di una certa tolleranza, altrove sono in vigore regole particolarmente restrittive che proibiscono, tra l'altro, le attività missionarie.

I cattolici cinesi
L'atteggiamento delle autorità varia considerevolmente, sulla base di considerazioni politiche: nei confronti dei musulmani, in particolare, il regime ha adottato misure repressive soprattutto nelle aree periferiche in cui si sono manifestate tendenze autonomiste ritenute pericolose, come quelle degli uighur del Xinjiang, per i supposti legami con movimenti radicali islamici (e per questa ragione Pechino ha goduto dopo l'11 settembre 2001 della comprensione americana).
Sono soprattutto le confessioni che tendono a sfuggire al controllo dell'autorità civile, Chiese o culti di origine straniera o sette indigene, a essere sospettate e anche interessate a provvedimenti restrittivi o repressivi. Tendenzialmente il Buddismo e il Taoismo godono di maggiore libertà rispetto alle confessioni cristiane. A partire dal 1999, il regime ha rafforzato i controlli sui cattolici, su quelli “patriottici” quanto su quelli indipendenti; le autorità sono intervenute nell'organizzazione interna della Chiesa cattolica riconosciuta e hanno fatto forti pressioni sui membri della Chiesa non-ufficiale.
Le relazioni di Pechino con i cattolici cinesi, inoltre, sono complicate dai rapporti con il Vaticano: anche se vi sono state ripetute dichiarazioni volte a favorire un avvicinamento, il dissenso rimane sostanziale e riguarda in particolare le prerogative del Papa nell'ordinazione dei vescovi e nel controllo della gerarchia della Chiesa cinese.
Questa rigidità di Pechino ha un'origine complessa, poiché in essa pesa senz'altro la formazione marxista e radicale dell'élite al potere, ma anche una tradizione confuciana che in passato (per la coincidenza delle attività missionarie con l'interferenza delle potenze imperialistiche occidentali) ha alimentato atteggiamenti xenofobi e una sostanziale estraneità non solo ai principi di libertà, ma anche all'idea stessa che possa sussistere una gerarchia religiosa veramente autonoma e dotata di potere in seno allo Stato cinese.

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