MERCATO

La facciata non basta

Sono frequenti le Campagne di “green-washing”: ricostruire la reputazione aziendale con Campagne di comunicazione basate su cambiamenti non reali.
Filippo Mannucci

In tutto il mondo occidentale il lavoro forzato è proibito, ma in Cina, ad esempio, no. È etico per un'impresa appaltare una produzione a un carcere cinese che usa lavoro forzato? Certamente questa pratica rispetta sia le leggi italiane che quelle cinesi, ma si può affermare che è una pratica corretta? E le imprese che comprano cacao sul mercato senza preoccuparsi se nelle piantagioni che l'hanno prodotto lavorano bambini compiono un'azione eticamente accettabile? In breve, le imprese hanno una responsabilità sulla loro filiera produttiva, oltre agli obblighi derivanti dalle leggi? E fino a che livello? E con quali strumenti possono controllare?

Gli attori in campo
In tutto il mondo occidentale le imprese stanno assumendo un'importanza sempre maggiore. Una parte importante delle politiche e delle risorse statali servono a sostenere il sistema delle imprese. In alcuni casi le imprese sembrano in grado di condizionare scelte e orientamenti politici ben oltre quanto le riguarda direttamente. Il sistema, nel suo complesso, sembra in gran parte disegnato a uso e consumo delle imprese. A livello mondiale molte imprese, almeno le più grandi, sono integrate in un sistema globale. Al contrario la legislazione non ha affatto seguito questo processo di globalizzazione, di fatto le regole hanno ancora applicazione a livello dei singoli Stati. Questo ritardo permette alle imprese una grande libertà di movimento: le merci vengono sempre più prodotte a basso costo in Paesi con bassi livelli di tutela sociale e ambientale e vendute ad alto prezzo nei Paesi ricchi, aumentando il margine di guadagno. Lavoro infantile, salari da fame, orari massacranti, condizioni di sicurezza precarie: questo avviene ancora nonostante moltissime convenzioni internazionali indichino con chiarezza quali sono i diritti da rispettare e quali le azioni da intraprendere. Raramente, però, queste convenzioni entrano nella legislazione nazionale e vengono fatte effettivamente rispettare.
È in questo quadro che nasce e si sviluppa il concetto di Responsabilità Sociale di Impresa: dato che gli Stati non riescono a farlo, quali sono i mezzi per far sì che le imprese si preoccupino delle conseguenze sociali e ambientali della loro produzione? Quattro sono gli attori che si confrontano. I primi tre sono

Un marchio per globalizzare i diritti
Proprio al forum mondiale di Mumbay nasce il nuovo marchio FTO (Fair Trade Organisation) che riunisce tutte le realtà del commercio equo e solidale. Il nuovo marchio non certifica un prodotto, ma identifica una organizzazione appartenente a IFAT (International Fair Trade Association) e quindi dotata dei requisiti di prodotto e di processo precisi e stringenti; esso intende distinguere le organizzazioni del commercio equo vere e proprie da altre organizzazioni commerciali coinvolte nel fair trade.
È un marchio che racconta la storia e l’impegno concreto di più di un milione di piccoli produttori e lavoratori che fanno parte di circa 300 organizzazioni di base sparse in America Latina, Africa e Asia; è una marchio che racconta le economie alternative e dal basso intorno alle quali ruotano le vite di ormai quasi 6 milioni di persone; è un marchio che celebra connessioni e reti virtuose tra i produttori equi del sud e i consumatori e risparmiatori critici del nord.

Per l’approfondimento dell’argomento, rinviamo alla lettura dell’articolo di Deborah Lucchetti (Roba Dell’Altro Mondo) nel prossimo numero di Mosaico di pace.
sulla scena da molto tempo. Prima di tutto le imprese, che si percepiscono come entità che devono principalmente creare profitto per i propri azionisti in un ambiente fatto di relazioni economiche e giuridiche. Di fronte a queste troviamo gli Stati e le pubbliche amministrazioni in genere, che da sempre hanno regolato l'operato delle imprese nell'ottica a volte del nazionalismo e a volte della democrazia. Terzo attore, i sindacati che, una volta organizzati, sono entrati in questa dinamica portando avanti il nuovo punto di vista dei lavoratori. A questi attori se ne è recentemente aggiunto un quarto, il consumatore, intendendo con questa parola più un ruolo che una categoria di persone.
E sono proprio i consumatori ad assumere un ruolo trainante negli ultimi anni. Coccolati e corteggiati dalle imprese, massacrati dalla pubblicità, sempre più spesso i consumatori stanno andando oltre le tradizionali richieste di qualità e di prezzo e stanno chiedendo qualità sociale e ambientale. Stanno chiedendo di rispettare scrupolosamente le leggi, quando ci sono, e di andare oltre quando le imprese operano in Paesi con bassi livelli di garanzia. Cosa possiamo fare, come consumatori, per garantirci di non essere complici inconsapevoli delle peggiori forme di sfruttamento? Come possiamo contribuire a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone lontane con le quali entriamo in contatto quando compriamo cose fate da loro? Che cosa è lecito e possibile chiedere alle imprese? Che cosa deve invece essere chiesto agli Stati? Che cosa ai consumatori? Che cosa ai sindacati?

Codici di condotta
L'attenzione dei consumatori ha suscitato attenzione da parte delle imprese, ma non sempre a questo ha corrisposto un impegno reale. Per alcune imprese, soprattutto quello che hanno un marchio ben conosciuto, la comunicazione di un'azione realizzata fa parte integrante dell'azione stessa. E a volte ne costituisce la sostanza. Per questo molte imprese si sono distinte per campagne di “green-washing”, tentativi di ricostruire la reputazione e l'immagine aziendale tramite campagne di comunicazione basate su azioni non sostanziali. Dietro tutti gli strumenti di responsabilità sociale si annida sempre un pericolo, che si tratti cioè di azioni di facciata che non vanno a intervenire sui nodi del problema. In alcuni casi questo è esplicito: le azioni di beneficenza pubblica e di filantropia non vanno a toccare i comportamenti delle imprese, ma solo la loro immagine. E spesso questo è sufficiente a convincere un consumatore distratto. In altri casi la questione è più subdola, come nel caso dei codici di condotta.
(c) Olympia Di fronte alle richieste dei consumatori molte imprese, tra le quali quasi tutte le multinazionali, si sono pubblicamente assunte degli impegni, hanno scritto dei decaloghi che si impegnano a rispettare al proprio interno e nella scelta dei fornitori. Ai fornitori, realtà spesso decentrate e localizzate in Paesi a rischio dove si annidano i problemi peggiori, è richiesto di firmare l'accettazione del decalogo e quindi di dichiarare, ad esempio, di non usare lavoro infantile. Anche se questi codici vengono mostrati al pubblico tutte le volte che viene scoperto qualche problema, il loro reale impatto sembra molto limitato. Si tratta spesso di codici generici e che non contengono riferimenti a diritti fondamentali come la libertà di associazione e di contrattazione collettiva. Inoltre, e questo è il nocciolo del problema, la loro applicazione non viene controllata da nessuno oppure viene monitorata solo da personale dell'impresa stessa. Per questi motivi una recente ricerca dell'Università Americana dell'Iowa e finanziata dal Dipartimento di Stato Americano ha mostrato come l'impatto dell'adozione di questi codici sia, nella maggioranza dei casi, nullo. I codici possono servire per dotare di procedure le imprese che sono decise ad applicarle, ma danno poche garanzie sulla reale qualità sociale e ambientale delle filiere coinvolte.

Bilanci e certificazioni
La prima cosa da fare per un'impresa che si vuole incamminare su una strada di cosciente responsabilità sociale è studiare il proprio assetto produttivo e capire quali sono le conseguenze della propria filiera. La redazione di un bilancio pubblico sugli aspetti sociali e ambientali della produzione può essere una buona occasione. Molte imprese, soprattutto quelle di grandi dimensioni, hanno intrapreso questa strada che certamente segnala uno sforzo di trasparenza. Ovviamente è molto difficile trovare gravi pecche segnalate nei bilanci che, anzi, di solito dimostrano i grandi risultati raggiunti in questi campi. Il problema dei bilanci socio-ambientali è infatti che nella quasi totalità dei casi vengono resi pubblici senza che nessuno esterno alle imprese possa averli verificati. Per questo in alcuni casi sono solo strumenti di marketing e di comunicazione sociale. Da segnalare, ad esempio, che la Parmalat è (era) una delle imprese ad avere i bilanci ambientali più belli.
Iniziative molto più recenti, le certificazioni sociali, sono un passo avanti rispetto ai codici di condotta. In questo caso il decalogo non è scritto dall'impresa stessa ma da un organismo indipendente, di solito una fondazione o un'associazione senza scopo di lucro. In generale il codice si limita a prendere in considerazione uno solo o pochi aspetti dell'operato delle imprese, ma in quel settore è scritto in modo da rendere misurabile e verificabile la sua applicazione. L'adesione volontaria al codice dà luogo alla concessione di un marchio che l'impresa può sfruttare nella propria pubblicità. Il rispetto del codice è verificato da un certificatore esterno scelto dall'impresa stessa, per cui questa deve aprire la propria filiera produttiva a controllori esterni. Questa strada, intrapresa già da molti anni in campo ambientale con marchi come ISO14000, EMAS e ECOLABEL è stata quindi percorsa anche in campo sociale. La certificazione più famosa in Italia è SA8000, ma anche questa è quasi sconosciuta presso i consumatori.
A oggi una sessantina di imprese italiane l'hanno ottenuta, tra le quali alcune molto note come Coop Italia e Granarolo. La presenza di un codice verificabile e di controlli esterni rendono le certificazioni sociali e ambientali una cosa ben diversa rispetto ai codici di condotta. Ma i famigerati casi della certificazione dei bilanci Enron o Parmalat dimostrano in maniera lampante che questo può non bastare: se le imprese si scelgono i propri certificatori e li pagano, difficilmente questi potranno essere realmente indipendenti. Dai Paesi a rischio, ad esempio la Cina, arriva la segnalazione che è iniziata la “corsa al ribasso” tra i certificatori per accaparrarsi più clienti.

Stato e società civile
Per questo motivo da alcuni anni chiediamo che gli Stati riassumano il loro ruolo in questo settore. Da una parte è necessario incentivare le imprese a percorrere questa strada e a far conoscere ai consumatori gli strumenti a loro disposizione, come l'SA8000, dall'altra è necessario vigilare che a ogni impegno dichiarato corrisponda un comportamento reale e non un'iniziativa di facciata. In questo secondo campo, in particolare, il mercato sta dimostrando di non essere in grado di regolarsi da solo, anzi, è sempre più evidente che la credibilità del sistema deve derivare da qualcosa esterno al sistema stesso.
Le Campagne che Mani Tese ha portato avanti negli ultimi anni insieme a molte altre associazioni si inseriscono proprio in questo campo, nella richiesta di un

Meno beneficenza più diritti
La campagna è promossa da 14 associazioni e ONG italiane e si pone l’obiettivo di fare in modo che la produzione estera controllata direttamente o indirettamente dalle aziende europee avvenga nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona e delle comunità locali e garantisca il rispetto e la protezione dell’ambiente.

Promotori: Arci, Amnesty International, Azione Aiuto, Legambiente, Coordinamento Lombardo NordSud, CTM, CTM, Libera, Cittadinanza, Banca Etica, Unimondo, Roba Dell’Altro Mondo, Save the children, Transafair, Mani Tese

Associazioni aderenti: CGIL, Movimento Consumatori, Movimento difesa del cittadino, Beati i costruttori di pace.
maggiore impegno da parte della pubblica amministrazione. Con le Campagne “Acquisti Trasparenti” prima e “Meno beneficenza più diritti” poi abbiamo chiesto allo Stato Italiano e all'Unione Europea di dare vita a una certificazione sociale volontaria garantita dallo Stato, quindi con controlli di secondo livello sui certificatori. Abbiamo chiesto anche trasparenza, punto chiave di tutta la questione: le imprese, come minimo quelle che vogliono ottenere la certificazione, devono dare informazioni complete sulla loro filiera produttiva. Ad esempio dovrebbero rendere pubblico dove avviene la produzione, in maniera da permettere controlli da parte dei sindacati e delle associazioni di consumatori.
Di segno opposto la proposta avanzata dal ministro Maroni in occasione del semestre italiano di presidenza europea: delle imprese ci si deve fidare completamente, si può credere all'esistenza di comportamenti corretti anche sulla base di una semplice autocertificazione. La sostanza della responsabilità sociale delle imprese sta, secondo Maroni, nelle azioni di filantropia, nel finanziamento di quei pezzi di welfare nazionale che lo Stato progressivamente abbandonerà. Come dire: l'etica non è come ti comporti, ma come usi una parte del tuo profitto. La Campagna “Meno beneficenza più diritti” vuole anche opporsi a questa impostazione, e nel sito http://www.piudiritti.it è possibile firmare una petizione in questo senso.
La Commissione Europea, nella sua comunicazione del 2 Luglio 2002, definisce la responsabilità sociale di impresa come “l'integrazione volontaria da parte delle imprese delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nelle loro interazioni con tutti gli interessati”. Definizione ottima, se non fosse per quell'aggettivo “volontaria”. Una definizione più appropriata sarebbe “integrazione delle convenzioni internazionali sociali e ambientali nelle pratiche delle imprese, anche oltre quanto previsto dalle leggi nazionali”. Bene partire con iniziative volontarie, se questo serve a diffondere la cultura e le pratiche della responsabilità, purché sia chiaro che, per difendere i diritti umani e la salvaguardia dell'ambiente, sarà necessario percorrere tutte le strade, anche quelle normative.

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