Il valore della democrazia
Gli era stata affidata la prolusione di apertura della 44esima settimana sociale dei cattolici italiani (Bologna, 7-10 ottobre). Lui, Francesco Paolo Casavola (già presidente della Corte Costituzionale e Garante per la radiodiffusione e l’editoria, attualmente presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana), ha colto l’occasione per dire cose così semplici e chiare da sembrare rivoluzionarie. La tesi di fondo? Le democrazie occidentali, così pubblicizzate come modello di efficienza da esportare a ogni costo, sono in crisi e hanno dimenticato i loro valori fondanti. Sopra tutti: la vita umana, barbaramente violata da guerre preventive del tutto illegali, i cui responsabili sono dei criminali e andrebbero puniti in sede penale.
Insomma, professore, di cosa è malata la nostra democrazia?
Io penso che quando parliamo di democrazia ci sia un certo limite. Noi consideriamo regimi di democrazia quei regimi in cui determinate regole procedurali legittimano l’investitura del potere. Ma quest’aspetto formale, delle regole, è insufficiente rispetto a quello dei valori. L’azione di un governo democratico dovrebbe corrispondere ai bisogni reali delle grandi moltitudini, ai loro valori. Primo di questi valori è quello della vita umana.
Il rispetto per la vita umana, almeno a parole, è un valore così popolare da sembrare scontato. È sempre stato così?
Assolutamente no. Nello Stato moderno la vita umana contava molto meno. Lo Stato moderno ha sempre fatto guerre. Perché queste guerre si potessero fare lo Stato riteneva disponibile la vita del cittadino, in nome del pro patria mori, il morire per la patria. Dopo le grandi tragedie del XX secolo le cose si sono rovesciate. Il valore supremo su cui si misura una democrazia oggi è quello della preservazione della vita. Ecco perché dal secondo dopoguerra in poi ci sono molte costituzioni che ripudiano la guerra.
Quali sono le tappe principali di questa “giurisprudenza della pace”?
Il punto di partenza è la Carta di San Francisco del 1945, che fonda l’Organizzazione delle Nazioni Unite e che ammette la guerra solo come mezzo per ripristinare l’ordine internazionale violato da uno Stato aggressore. La guerra è accettata soltanto se difensiva e nella misura in cui è una risposta dettata dalla necessità e per sua natura transitoria e provvisoria. Non sono più ammesse, invece, guerre interstatali. Poi ci sono delle costituzioni nazionali che regolamentano il rifiuto della guerra. Quella italiana del 1948, all’articolo 11, ripudia la guerra come strumento per la soluzione dei conflitti internazionali. L’articolo 26 della costituzione tedesca del 1949 dice la stessa cosa con molta più energia, perché afferma che chiunque prepari una guerra compie un atto contro la costituzione e deve essere portato dinanzi al giudice penale. Rispetto al nostro ordinamento, quindi, prevede una sanzione ed è molto più efficace. E questo si vede nei fatti, visto che la Germania si astiene dal partecipare anche a operazioni di peace-keeping. Da noi manca la sanzione e quindi ci sono possibilità di aggirare il precetto.
Quindi lei perfezionerebbe l’articolo 11, sulla scia dell’esempio tedesco?
Penso che una questione così grave per il destino collettivo, quale è quella della guerra o della pace, non possa essere decisa da una maggioranza parlamentare o dal Governo. In questo modo si conserva una concezione arcaica della politica, non conforme al grado di maturazione democratica dei cittadini.
L’entrata in guerra, dunque, andrebbe messa ai voti del popolo con un referendum?
Certo. Si dovrebbe interpellare i cittadini con un referendum consultivo e poi assumere le decisioni nella rappresentanza parlamentare. Quando a Bologna mi sono espresso a favore dei referendum sulle questioni che interpellano i valori e la coscienza intendevo questo. Molti pensavano a un mio schieramento a favore del referendum sulla fecondazione, che invece non c’entra niente con questo ragionamento.
Tornando alle norme di giurisprudenza esistenti, la guerra preventiva sponsorizzata dalla “dottrina Bush” è illegale?
Certo che è illegale. La Carta di San Francisco giustifica soltanto la reazione all’aggressione, e quindi la guerra in stato di necessità. La guerra preventiva è essa stessa una guerra di aggressione e quindi è vietata dalla legge. Non c’è dubbio su questo. Noi giuristi siamo trasecolati a sentir parlare di guerra preventiva come modo per preparare la pace. Questo concetto non è ancora chiaro solo perché i tribunali internazionali non stanno facendo buona prova nella materia dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità. Mi riferisco soprattutto al Tribunale Internazionale Permanente, che d'altronde non ha ancora visto la ratifica da parte degli Stati più importanti.
Lei ha espresso questo concetto con forza durante la settimana sociale dei cattolici italiani. Che idea si è fatto in quell’occasione sullo stato del pacifismo cattolico?
Si imputa alla tradizione cattolica che in passato si sia distinta la guerra giusta dalla guerra ingiusta. Oggi, però, la posizione della Chiesa su questo tema mi sembra netta ed è quella del pacifismo incondizionato. Neanche la cosiddetta “pace onorevole”, ma la pace a ogni costo. Penso che la Chiesa esprima, da questo punto di vista, la coscienza contemporanea, perché è convinta che ogni reazione militare ne chiami un’altra e inneschi una spirale senza fine.
Lei crede che, oltre alla Chiesa, sia l’Europa ad essere chiamata a un ruolo pacifista di cruciale importanza. Perché?
Il Trattato costituente dell’Unione dà all’Europa questo compito di pacificazione del mondo. Non più la pace tra i Paesi europei, ma la pace nei confronti dei problemi del mondo. L’Unione è una forza ormai di venticinque Stati, con quasi mezzo miliardo di uomini, con un potenziale tecnologico e industriale straordinario. E si mette a servizio della pace. Questo è il punto.
Le guerre stanno incrementando inevitabilmente anche i flussi migratori. Lei si è detto preoccupato nei confronti di un sempre più diffuso spirito di intolleranza razziale. La legislazione italiana in materia di immigrazione aiuta a promuovere uno spirito di accoglienza o rischia di assecondare pregiudizi e paure?
La legislazione che vuole essere una risposta all’emergenza delle immigrazioni non autorizzate e clandestine va distinta da una che invece inizia a riconoscere tante cose, come le festività di questi gruppi, le necessità dal punto di vista dietetico, della macellazione degli animali, della separazione dei sessi. Ci sono tante regole a diversi livelli, non solo legislative, ma anche sul piano dei regolamenti e delle ordinanze comunali, che tengono conto di questi “stati di eccezione” reclamati dalle varie comunità di immigrati. Penso che sia questa la strada da seguire, anche emulando le leggi di Paesi più esperti di noi su questo campo, che hanno più dimestichezza con la gestione del problema, come la Francia.
Oltre a essere un noto giurista, lei è attualmente il presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Si occupa, quindi, di diffusione della cultura. Che importanza ha la costruzione e il consolidamento di una cultura di pace nell’opporsi a una politica di guerra?
Prima di tutto, penso che la cultura non possa che essere una cultura di pace. Cultura significa dialogo tra gli uomini, comunicazione entro un recinto che ci comprenda tutti. Non c’è la cultura di un popolo, di una nazione, di una etnia, ma solo la cultura del genere umano. Per questo è importante che la cultura sia guadagnata dalle grandi collettività. E per questo difendere le istituzioni culturali significa anche un po’ difendere la causa della pace.