PRETI OPERAI

In tonaca e con la tuta blu

Una rilettura della coraggiosa esperienza dei preti operai, a 50 dalla condanna.
Rosario Giuè

Cinquant'anni fa da Roma partiva la condanna dei preti operai. Quell'esperienza fu iniziata in Francia dove, nel 1943, due preti, Y. Daniel e H. Godin, pubblicarono una ricerca: “France, pays de mission?”, che metteva in luce la frattura che si era creata fra la Chiesa e le masse popolari, specialmente nelle periferie delle grandi città. L'anno successivo, l'allora arcivescovo di Parigi, cardinale Emmanuel Suhard, lanciò la “Missione di Parigi” con il progetto di un'equipe di preti liberati da ogni impegno ministeriale tradizionale per consacrarsi all'evangelizzazione degli ambienti popolari di Parigi. Egli concesse a quei

50 anni in fabbrica
1950: Primo prete operaio italiano, don Bruno Borghi, di Firenze e amico di don Milani.
1956: secondo prete operaio italiano: don Sirio Politi a Viareggio.
All’inizio degli anni ’60 gli viene imposto di scegliere tra fare il prete o l’operaio.
Sirio lascia il cantiere, ma continua a mantenersi con il lavoro artigianale.
Con il Concilio riprende l’esperienza dei preti operai.
In Italia negli anni ’70 sono circa trecento.
Nel 1993 sono circa 110.

Ogni anno tengono un convegno, spesso a Viareggio.

Hanno una rivista Pretioperai, diretta da don Roberto Fiorini.
preti una libertà piena, svincolata da ogni obbligo. Dovevano rendere conto soltanto a lui. E così questi preti cominciarono a vivere con gli operai nelle periferie e nelle fabbriche. Altri vescovi francesi seguirono l'esempio.
Secondo quel progetto si trattava “di far nascere la Chiesa in seno alle masse proletarie, considerate nella loro propria mentalità, la loro propria vita e le proprie organizzazioni. Per questo appare necessario che il sacerdozio debba trovare forme nuove che l'avvenire preciserà”.

Non parlare ma farsi operai
Non si trattava di andare tra gli operai per calare dall'alto la parola di verità o come osservatori per studiare la situazione. Era necessario condividere la condizione operaia. Ciò significava intraprendere un cammino senza prospettiva di ritorno, nel senso che la vita ne rimaneva impigliata e compromessa per sempre. E infatti i preti operai furono coinvolti anche nelle lotte che il proletariato di allora era costretto a sostenere per avere il pane quotidiano e per la difesa della dignità ferita.
Ma quell'esperienza così innovativa e profetica non piaceva in Vaticano. Suhard fu convocato per spiegazioni, ma resistette fino alla sua morte nel 1949. Quello stesso anno un decreto del Sant'Uffizio colpiva di scomunica i comunisti e i loro simpatizzanti. Si poteva lasciare passare che dei preti stessero a fianco di quegli uomini scomunicati e si poteva lasciare che essi pubblicamente s'impegnassero in diverse iniziative di solidarietà e di denuncia? Così pressioni di carattere politico e di uniformità disciplinare portarono a chiedere ai vescovi di chiudere l'esperienza dei preti operai. In una circolare della Congregazione dei religiosi, dell'agosto del ‘53, si imponeva ai preti operai di abbandonare la loro condizione di lavoratori “in ragione dei gravissimi danni, per la stessa fede e per lo spirito di disciplina ecclesiastica e religiosa” a cui essi potevano essere esposti. Si disse che la vita operaia o marinaia doveva essere vietata “per incompatibilità con la vita e gli obblighi sacerdotali”. Così a settembre di quello stesso anno veniva chiuso il seminario della Missione di Parigi dove si preparavano i futuri preti operai. I professori ritornarono alle loro diocesi. Il 19 gennaio 1954 arrivava il provvedimento definitivo voluto da Pio XII: obbligo ai preti di lasciare il lavoro entro il termine ultimo del 1° marzo “sotto pena di sanzioni gravi”. A quel punto i preti operai si divisero tra ‘soumis', obbedienti, che accettarono di rientrare nel ministero tradizionale, e ‘insoumis', disobbedienti, che decisero di rimanere al loro posto. Questi ultimi divennero i dimenticati della storia, senza essere ancora oggi reintegrati nella Chiesa. Come ricorda uno di loro, Francis Serra, due persero la vita per disperazione. Alcuni nomi dei superstiti: Aldo Bardini, Maurice Combe, Jean Dessailly, Jean-Marie Huret, Jean-Marie Marzio, Jean Olhagaray e il citato Francis Serra.
Dovrà venire il Concilio per riprendere quell'esperienza. Paolo VI, nella lettera apostolica ‘Octogesima adveniens' del maggio 1971, scriverà che «la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine della Chiesa» (n.48). L'episcopato francese nel tempo avrà modo di dire bene dei preti operai. Ma per i preti ‘insoumis', per quelli non c'è stata offerta di riconciliazione, di affetto, di valorizzazione. Quando tempo dovranno ancora aspettare quei pionieri?

La lezione per l'oggi: un'inculturazione fino in fondo
Oggi il profilo della classe operaia non è più quello di allora. Il mondo è in qualche modo cambiato. Eppure dei preti operai rimane valida l'istanza profetica che quell'esperienza rappresentò. E che alla luce del Vangelo vissuto, il Vangelo scritto può apparire più semplice e più portatore di speranza. A loro fu chiaro che, oltre il tempio, la storia e la carne viva degli uomini e delle donne è il luogo da cui pensare e pregare Dio, è il luogo per ripensare la forma della Chiesa nel tempo. A loro fu chiaro, già allora, che se la Chiesa vuole parlare al mondo moderno ed esserne ascoltata, se vuole farsi sua compagna di viaggio condividendone sofferenze e speranze, deve prendere sul serio e fino in fondo la scelta dell'inculturazione. Che non è una verniciatura superficiale del proprio modo di apparire. Che non è un modo accattivante di presenzialismo. L'inculturazione, allora non si chiamava così, è portare il Vangelo tra il popolo di oggi, specialmente tra i più poveri, tra i giovani, le donne, e far sì che il Vangelo vi germini senza pre-concezioni ecclesiastiche, senza pre-giudizi ecclesiocentrici. L'inculturazione è fare nascere la Chiesa come figlia di questa nuova germinazione. Una Chiesa finalmente liberata da pesi, modelli e vestigia di ieri. Una Chiesa liberata specialmente dalla preoccupazione della sopravvivenza e dal peso del potere. Una Chiesa casa di tutti davvero. Una Chiesa capace di nascere in luoghi diversi, con modalità diverse, tutte rispettose le une delle altre, senza scomuniche e punizioni, desiderosa di valorizzare ciò che lo Spirito dice oggi attraverso vie insospettate, viste quasi come eretiche e indisciplinate.

Vale ancora quell'esperienza?
Anche il ministero presbiterale dall'esperienza dei preti operai ha occasioni e motivi per essere ripensato. Un ministero, perché non anche oggi?, vissuto condividendo la fatica del lavoro, la pazienza che il lavoro subordinato comporta, la condivisione delle ingiustizie e la ricerca delle vie per essere liberi insieme. La preoccupazione del pane quotidiano. Un ministero che ha la certezza del sostentamento assicurato rischia di perdere, e spesso perde, il diritto di parola, perde la parola, e con la parola rischia di perdere il carisma della profezia. Un ministero che non ha paura di stare nelle case tra le case, dove si vivono affetti, preoccupazioni, forse anche banalità, insieme a genuinità e capacità di sognare insieme. Un ministero vissuto in modo plurale, senza cliché, del quale importa essenzialmente la capacità di dedizione al Vangelo e all'uomo e alla donna del nostro tempo. Un ministero vissuto nella comunità eucaristica, della quale sostenere il cammino, e nella quale e con la quale meditare la Parola. Un ministero che nella liturgia non cerca spazi per trovare sicurezza, ma un ‘luogo' da dove veder sprigionare la forza liberatrice della promessa del Signore.

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