Minori ma con diritti
Il diritto alla pace
Tuttavia, pur non esistendo un “diritto alla pace” dichiarato e rimanendo il principio ideale “ogni bambino è una zona di pace” ben lontano dall’essere una realtà, la Convenzione sviluppa quanto già esisteva nella IV Convenzione di Ginevra (1949), nei Protocolli aggiuntivi sulla protezione delle vittime dei conflitti armati (1974) e nella Dichiarazione sulla Protezione delle donne e dei bambini nelle emergenze e nei conflitti armati (1977), primo documento quest’ultimo a registrare i mutamenti in atto nella fisionomia della guerra che si sta trasformando sempre più in massacro indiscriminato e che per questo motivo esprime la condanna dei bombardamenti su obiettivi civili, dell’uso di armi chimiche e batteriologice, delle torture e delle rappresaglie contro la popolazione civile.
I diritti umani
Nella Convenzione il bambino (da 0 a 18 anni) diventa finalmente titolare di diritti umani (e non più solo oggetto di tutela) e come tale vede riconosciuto il proprio diritto a poter vivere e crescere nelle migliori condizioni possibili, senza alcuna discriminazione sessuale, etnica o religiosa.
La speciale tutela che spetta ai bambini in tempo di emergenza è dunque una specificazione del più generale diritto alla vita e allo sviluppo, e si differenzia da esso solo per la massima intensità del dovere che incombe sugli adulti di risparmiare sofferenze eccessive o irrimediabili ai bambini.
Sono rilevanti, rispetto alle situazioni in cui si trova a vivere un bambino coinvolto in un conflitto armato: il diritto al nome e alla registrazione anagrafica (art. 7), il diritto a non essere arbitrariamente separato dai genitori (art. 9) e a potersi ricongiungere con essi in patria o all’estero (art. 10), il diritto a una protezione speciale da parte dello Stato per il minore rimasto privo di famiglia (art. 20), il diritto del minore rifugiato a beneficiare della protezione umanitaria necessaria e a ottenere le informazioni necessarie per ricongiungersi alla famiglia (art. 22), il diritto a mantenere la propria identità culturale per i bambini appartenenti a minoranze etniche, religiose o linguistiche o a popolazioni indigene (art. 30), la protezione dalle droghe, dal rapimento, dallo sfruttamento sessuale o dalla tortura o altro trattamento punitivo crudele o degradante (artt. 33-36).
L’art. 38 che prevedeva il divieto di arruolamento per i minori di 15 anni e che mostrava tutti i limiti di questa norma è stato emendato da un Protocollo aggiuntivo – ratificato da molti Paesi ed entrato in vigore nel 2002 – che prevede l’innalzamento a 16 anni per l’arruolamento e a 18 per il coinvolgimento diretto nei combattimenti.
Il lavoro minorile
In questo senso si è mossa anche la Convenzione n. 182 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sulla proibizione delle peggiori forme di Lavoro Minorile, stipulata a Ginevra il 17 giugno 1999, che ha classificato l’arruolamento di minorenni allo scopo di partecipare a conflitti armati fra le forme di schiavitù che gli Stati ratificanti si impegnano a rimuovere senza compromessi o dilazioni (art. 3).
Natalina Mosna
Titolari di diritti autonomi
La Convenzione ha avuto un lunghissimo periodo di gestazione. Già all'indomani della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, si cominciò a discutere sull'opportunità di stilare un documento che fosse dedicato specificamente ai diritti dei bambini. Il problema non era di secondaria importanza: si trattava di stabilire se i bambini fossero semplicemente “minori”, e quindi sostanzialmente soggetti di tutela da parte del mondo degli adulti, oppure se essi fossero pienamente titolari di diritti autonomi. Per quanto possa sembrare paradossale fu proprio la convinzione che i bambini andassero considerati prima di tutto come soggetti da tutelare a rendere meno vivo il dibattito sui loro diritti, con la conseguenza che era il mondo degli adulti, a partire dalle proprie tradizioni e dalla propria visione del mondo, a stabilire i confini dei diritti ma anche della responsabilità dei minori. In un clima di questo genere non stupisce il relativo insuccesso della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, promulgata dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel novembre del 1959: essa rimase quasi sconosciuta, incise poco sulla giurisprudenza e finì per essere poco più di una dichiarazione di intenti, senza peraltro veder riconosciuto fino in fondo l'appello morale che una dichiarazione sui diritti dei bambini porta con sé. Non ebbero sorte migliore i Patti Internazionali sui Diritti dell'Uomo del 1966, nei quali ai bambini veniva dedicato uno spazio estremamente ridotto, rinforzando soprattutto atteggiamenti paternalisti.
Il principio di autorità
La questione era ed è seria: riconoscere apertamente dei diritti, magari dei diritti specifici, significa accettare un principio di autorità che i soggetti di diritto esercitano e quindi stabilire a partire da lì dei doveri nei loro confronti. In altre parole, riconoscere diritti specifici ai minori comporta che tali diritti possano diventare in certi casi prioritari rispetto a quelli degli adulti.
Così si dovette attendere il 1978 prima che un gruppo di giuristi e di esperti internazionali cominciasse a elaborare un testo sui diritti dei minori che conciliasse esigenze provenienti da tradizioni culturali, sociali, politiche e religiose estremamente diverse. Il testo definitivo venne approvato undici anni più tardi, a trent'anni dalla Dichiarazione sui Diritti del Fanciullo del 1959. Esso era frutto di faticose e difficili mediazioni, che avevano lasciato aperte ferite dolorose: la più vistosa è costituita forse dalla mancanza del riconoscimento del diritto alla pace.
Tuttavia la Convenzione rappresenta uno straordinario passo avanti. Si tratta di un documento molto più lungo e articolato di tutte le dichiarazioni precedenti, preoccupato di fornire qualcosa di più di un semplice elenco di principi e teso a fornire agli Stati un quadro abbastanza articolato per sostenere le legislazioni nazionali. Scrivono Atzori e Porfiri: “La persistente attualità della Convenzione è dovuta alla sua natura. I suoi articoli non si limitano a fotografare la realtà, ma in un certo senso la anticipano e la costruiscono, affiancando ai diritti universalmente riconosciuti e sanzionati (diritto al nome, alla sopravvivenza, alla salute, all'istruzione e così via) una serie di diritti di nuova generazione, quali il diritto alla privacy o quello a un ambiente naturale sano. Accanto al bilancio di ciò che oggi è già garantito alle generazioni più giovani, la Convenzione annovera articoli di valore programmatico, che disegnano un orizzonte di obiettivi da raggiungere nel futuro”. (A. Atzori, E. Porfiri, I bambini e i loro diritti, Comitato Italiano per l'UNICEF, p. 11. Il testo integrale della Convenzione può essere richiesto a UNICEF Italia, Via V. E. Orlando 83, Roma)
I principi della convenzione
La Convenzione è sostenuta da quattro principi guida.
Vita, sopravvivenza e sviluppo dell'infanzia. Ogni bambino detiene, come tutti gli esseri umani, il diritto prioritario alla vita. La sua condizione di debolezza ne fa inoltre soggetto privilegiato nelle scelte che abbiano conseguenze dirette o indirette sulla sua crescita e sul suo sviluppo fisico, psichico e morale.
Non discriminazione. Gli Stati firmatari si impegnano ad assicurare ad ogni bambino il godimento di tutti i diritti sanciti dalla Convenzione, a prescindere dall'appartenenza etnica, dalla religione, dal sesso, dall'estrazione sociale.
Superiore interesse del minore. In tutti i provvedimenti di carattere giuridico, come anche nelle iniziative pubbliche o private che riguardino infanzia e adolescenza, l'interesse dei minori deve avere priorità su altri interessi.
Ascolto delle opinioni del bambino. I bambini hanno il diritto di essere ascoltati, e quindi esiste il dovere di coinvolgerli in tutti i procedimenti che li riguardano, non solo sul piano educativo, ma anche su quello giuridico.
L'applicazione dei principi
È chiaro che il problema non sta nella condivisibilità di questi principi, ma nella loro applicazione e soprattutto nel controllo su tale applicazione. Su questo versante la Convenzione appare davvero come un documento di nuova generazione, poiché prevede un meccanismo di controllo costituito dal Comitato per i Diritti dell'Infanzia, meglio conosciuto come Comitato dei Diciotto, che ha il compito di monitorare ogni cinque anni, con la raccolta di informazioni dettagliate, l'effettiva applicazione della Convenzione da parte degli Stati che l'hanno ratificata, suggerendo cambiamenti di carattere legislativo o effettuando aperti rimproveri.
Certo permangono ancora problemi aperti. La difficoltà principale è dovuta ovviamente al fatto che non esiste un'autorità che possa sanzionare con efficacia coloro che non rispettano la Convenzione dopo averla ratificata. Ma ci sono anche altri problemi, come la tendenza degli Stati a privilegiare alcuni diritti e a trascurarne altri, che richiederebbero magari interventi strutturali o il cambiamento di abitudini consolidate, nella convinzione che alcune delle esigenze espresse nella Convenzione non siano in realtà così vincolanti.
Convenzione aperta
Un'ultima osservazione va spesa sul carattere “aperto” della Convenzione. E forse è proprio per questo suo carattere aperto la Convenzione meriterebbe di essere più letta e conosciuta nelle scuole, nelle associazioni, fra gli operatori di pace. Perché è difficile immaginare un futuro di pace a prescindere dai bambini…