CATTOLICI

La lobby della fede?

Orfani del partito, i cattolici stanno ridefinendo la loro presenza nella società italiana. Segno di cambiamento o lobby organizzata in difesa degli interessi religiosi? I rischi di un nuovo integralismo cattolico nelle parole dello storico Pietro Scoppola.
Fulvio Fania

Cattolici e politica. A parlarne con lo storico Pietro Scoppola un'intervista non basta. Ogni concetto spalanca la porta su un'altra serie di domande: la Chiesa, la fede, la scommessa quotidiana del credente. Il nostro colloquio comincia dal medesimo quesito che avevamo posto il mese scorso al sociologo Franco Garelli.

I cattolici hanno trovato un modo nuovo di stare nella politica dopo la fine della DC e la “diaspora”?
Non l'hanno ancora trovato perché non hanno adeguatamente riflettuto su cosa è stata effettivamente l'unità politica dei cattolici, sulla sua necessità in una certa fase, sul significato che essa ha avuto in periodo degasperiano, come opposizione al comunismo ma anche come resistenza ai tentativi della destra cattolica di dar vita a un movimento antidegasperiano. E non hanno riflettuto sui costi religiosi molto alti che la Chiesa sta ancora pagando. D'altra parte, l'unità politica non è mai stata piena, ci sono sempre stati margini di presenza cattolica fuori dalla DC.
Le tentazioni oggi sono due: vivere la fine dell'unità politica in chiave di rimpianto oppure in termini di rissa cioè rivendicando il titolo di cattolico in politica, gli uni contro gli altri. Una rissa – va detto – che è alimentata soprattutto dai cattolici schierati a destra. Per progettare il futuro occorre invece considerare chiusa la precedente stagione. Nell'estate scorsa abbiamo avuto sentore del riemergere di una certa nostalgia e abbiamo registrato qualche iniziativa in questo senso, non si capisce quanto voluta o appoggiata dalla CEI. Sono però tentativi fuori dalla storia; bisogna Manifesto - Democrazia Cristiana affrontare i nuovi tempi sulla base di una ridefinizione dello “statuto politico della religione”. Il modello francese, infatti viene progressivamente superato mentre ci avviciniamo al modello anglosassone.

Può riassumere la differenza?
Il modello francese, che ha svolto un'importante funzione nel dopoguerra, è quello che Gramsci definiva con la formula della Chiesa che diventa parte e si fa partito. Nel modello anglosassone, invece, si riconosce che tutte le esperienze religiose, nel quadro di una società pluralistica e di una libertà garantita, contribuiscono a formare un tessuto etico comune, in cui il tema religioso è presente e non fa scandalo citare Dio.

La presa d'atto della fine dell'unità politica risale al Convegno ecclesiale del 1995. Non è passato abbastanza tempo?
Riconoscere un fatto non basta, bisogna metabolizzarlo culturalmente.

Il ritardo coinvolge le gerarchie?
Certo. È il problema di una cultura cattolica asfittica, preoccupata più delle definizioni dottrinali, e di ridefinire la posizione dei cattolici su temi etici in forme astratte che di capire come si configuri la loro presenza nella società contemporanea.

Dalla “Settimana sociale” e da altre iniziative emerge un richiamo all'unità dei cattolici, oltre che sulla fede, sui valori, benché si riconosca che essa non esisteva neanche ai tempi della DC.
Non c'era neppure l'unità sulla fede. Nella Chiesa la fede viene vissuta in forme diverse, dentro culture differenti. Concepirla come fede nel Mistero è già diverso dal concepirla come fede in dati definiti e formulabili in termini razionali. Il modo di vivere la fede dell'Opus Dei non è lo stesso di Pax Christi. Tanto meno si può parlare di unione sui valori, che sarebbero una declinazione di queste esperienze di fede in termini culturali. Qui si evidenziano le mille diversità che costituiscono la ricchezza della Chiesa. Se la Chiesa non avesse goduto di un tale pluralismo non sarebbe durata duemila anni. La tendenza dell'autorità è sempre quella di controllare il processo, ma il processo va avanti per vitalità propria, non si fa imbrigliare. Per questo vedo con speranza il fatto che, dopo la fine dell'unità politica, si moltiplichino le esperienze più varie.

È stato enfatizzato l'abbraccio tra CL e Azione Cattolica mentre altri hanno ventilato un “partito” sociale tra le associazioni e altri ancora propongono un'azione di lobby. Cosa ne pensa?
L'azione di lobby è rischiosa perché sta ai confini dell'uso della religione instrumentum regni, dell'uso elettorale della religione. Un tempo si difendeva l'unità politica dei cattolici pensando che questo potesse servire a garantire la presenza di certi valori; ed ecco invece che, finita quell'unità, ci siamo accorti che la Chiesa può ottenere molto di più di allora in termini di scambio, di concessione alla lobby. Lo abbiamo constatato per il buono-scuola o per gli insegnanti di religione, immessi in ruolo con la garanzia che qualora non godano più della autorizzazione del vescovo passeranno a un'altra materia; una scelta assurda che non risolve il problema di fondo, cioè l'assenza nella scuola italiana della cultura religiosa, non certo assicurata dal solo insegnamento confessionale. È un problema che si pongono intellettuali francesi laici e perfino anticlericali come Regis Debray e noi ancora no!
La varietà di proposte dell'associazionismo cattolico sarà positiva se potrà esprimersi in una dialettica aperta e non ricondotta subito dentro schemi rigidi guidati dall'alto. Non si può guidare dall'alto una maturazione nuova che richiede piena autonomia. Vorrei una gerarchia in ascolto, che richiama ai grandi valori intesi però come spiritualità profonda, ispirazione religiosa, senso del mistero e di quel rapporto tra annuncio di Dio e storia degli uomini che non può riassumersi in qualche formuletta del Catechismo. Manifesto - Democrazia Cristiana Questa ricerca del senso religioso non dovrebbe piegarsi a un compito organizzativo perché questo diventerebbe controllo.

Non le pare che nell'impatto con l'Islam una parte della cultura cristiana faccia passi indietro sulla laicità?
Il confronto con l'Islam è una sfida da accogliere positivamente e che tanti gruppi hanno già accolto promuovendo un dialogo certamente difficile. Ma è anche vero che fondamentalismo chiama fondamentalismo e così tra i cattolici si avvertono chiusure integraliste. Ci sono addirittura dei laici che si dichiarano non credenti e tuttavia usano il cristianesimo come “identità-contro”. Siamo al paradosso della Lega che, dopo aver celebrato ridicole cerimonie con l'ampolla dell'acqua del Po, ora vuole imporre il crocifisso nelle scuole: il crocifisso non si impone né si toglie per legge. O viene messo come espressione di una società che lo sente spontaneamente oppure è assurdo stabilirlo per norma come fece il fascismo.
In realtà si sta manifestando una tendenza che risale all'Action francaise di fine '800-inizio '900: il cattolicesimo non cristiano o addirittura ateo. Mussolini, ad esempio, si dichiarava cattolico non cristiano. Rischiamo di tornare a queste forme e vorrei che la Chiesa lo denunciasse. Talvolta lo ha fatto, ad esempio nei confronti della Lega o non aderendo a crociate sul crocifisso. Non condivido invece l'insistenza sulle radici cristiane dell'Europa. La formula inserita nel Trattato non le nega affatto e, d'altra parte, in Europa ci sono state l'influenza greca, romana, cristiana – prevalente ma non esclusiva –, ebraica, islamica nonché la grande tradizione laica con la Rinascenza e l'Illuminismo. Chiudere in una definizione giuridica le radici del Continente è impossibile. Ciò che conta è come l'Europa difenderà certi principi, se farà una politica di pace, se lavorerà nel senso del multilateralismo ricreando le premesse di un ordine internazionale quale auspicato dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII. Se al contrario sarà solo una struttura per regolare gli affari economici interni, nessun richiamo alle radici cristiane potrebbe servire.

C'è un paradosso. La Chiesa denuncia una marginalizzazione della fede in Occidente; al contempo la religione balza di nuovo tra i protagonisti della scena. Come si spiega?
È la contraddizione che stiamo vivendo ed è un problema di grandissima valenza culturale. Negli ultimi decenni del XX secolo era diffusa la convinzione, anche in ambiente cristiano e cattolico, che il fattore religioso sarebbe stato emarginato dai processi di secolarizzazione dovuti alla modernità. Invece è riemerso come fattore decisivo. A questo si accompagna la singolare denuncia della Chiesa di essere poco meno che perseguitata in Europa. Resto perplesso: dove sta questa persecuzione? La marginalizzazione, semmai, ha radici nei vecchi processi di industrializzazione, nel conflitto tra Chiesa e Stato degli anni del liberalismo. Oggi accade esattamente il contrario: c'è la minaccia di un uso politico della religione alla quale la Chiesa dovrebbe reagire per mantenere la sua piena credibilità. Di fronte al pericolo che al fondamentalismo islamico corrisponda un fondamentalismo cristiano rimane essenziale il rapporto del mondo cristiano con quello dei non credenti. Invece non se ne parla più.
A questo proposito vorrei fare un cenno al recente documento di Ratzinger sulla donna, che è stato criticato talvolta in modo volgare, sottovalutando che esso contiene un elemento di novità di importanza enorme. Per la prima volta negli ultimi tempi, infatti, in un documento ufficiale della Chiesa non ci si richiama a fondamenti razionali di legge naturale – la Chiesa come interprete di una norma naturale da leggere alla luce di una ragione del cui buon uso la Chiesa stessa è garante – bensì alla Bibbia. E quando si passa alla Bibbia come fondamento dell'esperienza di fede si recupera lo spazio della scelta o, per dirla con Pascal, della scommessa. Su queste basi si può riproporre il dialogo con i non credenti.

In realtà i richiami della Chiesa alla “legge naturale” si fanno sempre più insistenti.
Ma così la Chiesa rischia di spendere le proprie energie, anziché nell'annuncio del Vangelo, in un'opera di difesa della ragione, proprio nel tempo in cui la scienza teorizza il limite della ragione. Non siamo più di fronte alla sfida del positivismo e delle ideologie forti, siamo arrivati piuttosto alla considerazione del limite della ragione e della scienza, siamo giunti al pensiero debole. La Chiesa dovrebbe incoraggiarlo perché lascia spazio alla fede, suo compito è richiamare gli scienziati al senso dei loro limiti, piuttosto che mettersi sul loro terreno a definire cose che difficilmente sono definibili in materia di bioetica.

È uscito il “Compendio di dottrina sociale della Chiesa”. In che senso va intesa oggi la dottrina sociale?
È molto importante, purché non la si concepisca come chiusa, codificata. Mi ha appassionato come storico per tutta la vita e proprio per questo non posso non storicizzarla. Soltanto una lettura storicizzata ne può dare il vero valore, misurarne l'incidenza nella società. Se invece la si chiude in un formulario essa perde significato ed efficacia: ma questo l'aveva già detto Paolo VI nella Octagesima adveniens; poi c'è stato un po' di arretramento, sebbene – intendiamoci – Giovanni Paolo II abbia fatto progressi enormi: si pensi soltanto al fatto che ha introdotto il tema ecologico e la solidarietà “verticale” tra le generazioni.

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