EDITORIALE

Dove sono finiti i laici adulti?

Guglielmo Minervini

Nel nome di dio si è consumata e poi vinta la campagna elettorale più importante del pianeta. Nel nome di dio si spacca il parlamento europeo e s'immola, per la prima volta, l'intero governo continentale. Anzi, nel nome di dio si apre una frattura proprio nel cuore del patto costitutivo della nuova Europa. Al nome di dio si ricorre regolarmente per giustificare il vuoto di etica dinanzi alle sfide della scienza e della vita.

Il nome di dio ha ripreso a tirare. Più che mai. I politici sono irreversibilmente screditati, i magistrati in declino, gli imprenditori hanno fallito, persino il clero è in crisi di credibilità e, allora, non ci resta che dio. Per salvarci dalla deriva. Invocare direttamente lui. Senza filtri. Bush e dio. Buttiglione e dio. Ci mancava pure Ferrara e dio. Il nome di dio fa vincere le elezioni. Rende intoccabile la parola umana. E trasforma in martiri anche i mediocri.

Dinanzi al senso di insicurezza, di precarietà, spesso proprio di paura, che segna questa cerniera tra due epoche, sembra che funzioni meglio un rassicurante recupero di dio che una faticosa risposta della ragione e della coscienza. Se il pensiero s'è fatto debole, allora è opportuno ricorrere al presidio forte e saldo di dio. Solo il riferimento al suo nome rende possibile ciò che altrimenti non lo sarebbe con argomenti naturali. Questo vale per le decisioni estreme: così la guerra per esportare la democrazia e lottare contro il male non è, in fondo, scelta dell'uomo ma espressione della volontà di dio. Questo vale anche per il quotidiano: è sotto i riflettori della religione che si legifera ormai in materia di diritti degli omosessuali o di sostegno alla famiglia o di nuovi fronti della genetica.

Sul nome di dio è scomparso il tabù. O semplicemente il pudore di non pronunciarlo invano. In quel pudore c'era tutta la consapevolezza dello scarto tra i nostri limiti e l'insondabile mistero del deus absconditus, del Dio che ama rivelarsi nascondendosi all'uomo. Non pronunciare il nome di Dio significa riconoscere che non si dà, per nessuno, un mandato di rappresentanza in sua vece. Significa sostare nel silenzio dell'incertezza, nell'ascolto incessante. Quel pudore identifica l'unico atteggiamento possibile della fede di fronte all'infinitamente Altro.

La banalizzazione del nome di dio, il suo uso corrente, televisivo, è, insomma, un altro indizio inquietante della regressione cui ci stiamo rassegnando.

Al contrario, oggi più che mai, sarebbe utile riaffermare la conquista conciliare dell'autonomia dei credenti immersi nel laos, nel popolo, con la responsabilità loro propria di costruire mediazioni possibili. Sarebbe più che mai attuale la lezione dell'epistola a Diogneto sui cristiani che, operando nel mondo, si fanno riconoscere per le opere di giustizia che compiono più che per i simboli che esibiscono. Sarebbe davvero propizia l'intuizione di Bonhoeffer sul cristiano che, proprio prendendo sul serio il mondo, agisce, in un tempo completamente secolarizzato, come “se Dio non ci fosse”, cioè in forza delle ragioni che matura e non di quelle che invoca.

In questa ebbrezza idolatrica, preoccupa l'improvvisa scomparsa del cattolicesimo adulto, maturo, consapevole che la sfida di un mondo complesso (“a complessità crescente deve corrispondere coscienza crescente”, ripeteva Theilard de Chardin) si possa affrontare solo con la fatica della costruzione di coscienze responsabili, non certo nell'irregimentazione di truppe regolari sui bastioni di nuove cittadelle cristiane. Perché è bene che si sappia: lungo il perimetro dell'integralismo, da questa parte, non solo da quella islamica, corre la nuova frontiera dello scontro di civiltà.

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