Volontari ma non professionisti
Non tutti i Paesi dell'Unione hanno fatto la scelta di mandare in naftalina l'esercito di leva. I Paesi scandinavi e la Germania, ad esempio, hanno ancora in vigore la leva obbligatoria.
In Italia, invece, su tre punti, presto diventati degli assiomi indiscutibili, si è costruito un consenso che ha portato, in tempi insolitamente veloci, a una serie ripetuta di provvedimenti legislativi che dal 1999 al 2001 e poi al 2004 hanno prodotto il concreto risultato di ridurre le dimensioni numeriche delle FFAA, a modificare il sistema di reclutamento, a far identificare la loro azione nella partecipazione a missioni all'estero invece che alla difesa del territorio nazionale.
I tre punti concettuali sono:
– con la fine della Guerra Fredda in Europa è venuto meno il rischio di guerre fra gli Stati e quindi non servono eserciti stanziali;
– i conflitti però restano e quindi serve che continuino a esserci gli eserciti. Però cambiano la natura, i luoghi e i soggetti dei conflitti e quindi servono eserciti dotati più in tecnologia che in numero di soldati;
– la leva obbligatoria, per giunta rivolta solo agli uomini, è oramai talmente impopolare, oltre che obsoleta, che prima viene abolita e prima le forze politiche ne traggono consenso.
Assiomi fragili
Sarebbe, e molti lo hanno fatto, relativamente facile smontare questi assiomi e dimostrare che altri, ben meno ideali e più economici, sono i motivi che
E ciò rende tanto più apprezzabile la scelta professionale di chi partecipa ai concorsi per volontari.
L’Italia non ha dato vita a un esercito “professionista”, ma a un esercito di “volontari”, che è sempre l’esercito del popolo italiano, nel solco di una tradizione nazionale che trae origine dalle guerre d’indipendenza. (…)
La normativa, predisposta dal Parlamento, sul reclutamento offre ai volontari la prospettiva di partecipare a tutti i concorsi per i corpi armati dello Stato. Essa è uno strumento appropriato di riduzione dei costi di formazione del personale futuro; sta dando i risultati sperati.
Chi ha a cuore le esigenze della sicurezza nazionale non può non seguire con attenzione l’entità delle risorse assegnate alla Difesa, per gli investimenti, il funzionamento, la manutenzione. È doveroso spendere bene, evitare sprechi, risparmiare tutto quello che si può, ma si deve fare attenzione a non scendere al di sotto di alcuni standard internazionali.
Vanno altresì moltiplicati gli sforzi per realizzare iniziative insieme ad altri Paesi europei, riducendo così le sovrapposizioni di spesa – ad esempio in ricerca e sviluppo – e accrescendo di pari passo la massa critica e la qualità degli investimenti.
Per questo esprimo vivo compiacimento per l’accordo italo-francese per realizzare 27 fregate ad alta tecnologia, di cui 10 per la nostra Marina, che concorreranno in modo sostanziale al rinnovamento della flotta.
Così come è importante che prosegua il programma italo-tedesco dei sommergibili a idrogeno, che tanto interesse ha destato a livello mondiale. Auspico anche l’adozione dell’M346 come addestratore per le aeronautiche europee.
L’integrazione europea è una opportunità vitale per l’industria italiana della difesa, ma anche per la stessa formazione del personale.
(dall’intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi alla cerimonia di consegna delle decorazioni dell’Ordine Militare d’Italia, avvenuta al Quirinale il 2 novembre scorso)
In Italia, in dimensioni simili alla sola Germania, dal 1972 era anche in atto un servizio alternativo al servizio militare, il servizio civile, rivolto ai giovani italiani che, abili al servizio militare, si dichiaravano obiettori di coscienza.
Non è priva di fondamento l'opinione di chi sostiene che alcuni settori favorevoli alle Forze Armate professionali abbiano dato il via libera nel 1998 alla riforma della legge sull'obiezione di coscienza con l'auspicio che l'ulteriore incremento di obiezioni avrebbe accelerato la scelta di passare a un sistema volontario di reclutamento.
Così in effetti è stato e con la fine degli anni ‘90 anche in Italia il numero degli obiettori ha superato quello dei militari di leva.
Adesso che si apre questa nuova storia è utile fare una mappa delle sfide a cui sono chiamati gli operatori di pace, quale che sia la loro collocazione nel sociale o la loro ispirazione ideale o religiosa.
Difesa partecipata
La sfida più rilevante mi pare quella legata al valore della partecipazione dei cittadini italiani alla difesa della Patria. I contenuti della difesa sono molto più ampi di quelli storicamente definiti e le nuove definizioni di difesa e sicurezza sono molto simili fra i civili e i militari. La vera differenza è su chi orienta e governa questa innovazione: i militari, forti del loro potere materiale ed economico, tendono a occupare tutti gli spazi sia di riflessione sulle esperienze, sia di elaborazione dei nuovi paradigmi di intervento, sia di comando sul terreno delle operazioni.
Eppure, grazie soprattutto all'azione del Presidente della Repubblica Ciampi, i significati della parola Patria si sono ampliati e differenziati rispetto a quelli nazionalistici. Ovviamente questo non vuol dire essere ciechi o remissivi rispetto al revisionismo storico e ai continui rigurgiti di xenofobia o nazionalismo.
Invece, più arretrato pare il collegamento fra partecipazione dei cittadini alla vita sociale e politica e difesa della Patria. Come ha sottolineato il Presidente Ciampi, la scelta dovrebbe essere FFAA non di professionisti ma di volontari. Quindi non delega a specialisti, ma libero e consapevole coinvolgimento dei cittadini, così come il deciso sostegno al Servizio Civile Nazionale ha più volte richiamato.
Anche all'interno del mondo degli operatori di pace e soprattutto delle organizzazioni c'è molto cammino da fare per creare un organico collegamento fra le politiche di solidarietà, socio assistenziali, di promozione culturale e quelle della difesa, promozione della pace e della solidarietà internazionale.
Sfide aperte
Perché c'è una difficoltà così consistente a sviluppare progetti di servizio civile nazionale all'estero per missioni di pace, di prevenzione dei conflitti, o progetti transnazionali fondati su uno scambio paritario di esperienze e di culture? Sicuramente pesano difficoltà economiche e organizzative, ma anche atteggiamenti culturali delle organizzazioni che preferiscono la settorializzazione degli interventi alla loro integrazione.
E forse pesa la difficoltà a superare la divisione fra civile e militare, fra nazionale e internazionale. In altri termini la difficoltà a tradurre in strumenti di intervento concreto, che non siano solo progetti pilota, la globalizzazione culturale e religiosa, persino organizzativa (quanto pesa la difficoltà di accettare i modi di operare dei sud del mondo perché siamo gelosi dei nostri modi di operare?). E anche il dato reale e non esorcizzabile della scomparsa della separazione secolare fra società civile e società militare specie nell'Europa Occidentale.
Governare o rifiutare?
Certamente è più difficile prenderne atto e operare per governarla che rifiutarla. Solo che rifiutandola si perde già la sfida strategica: chi governa questa innovazione? A oggi questo governo in larghissima parte è nelle mani dei livelli direttivi dell'industria e delle Forze Armate, con il ceto politico che se ne fa portavoce. Alla lunga questo squilibrio indebolirà la democrazia.
Nonostante tutto, però, si sono aperte delle prospettive inedite. Il superamento del concetto di cittadinanza ristretto solo agli ambiti dello Stato Nazione e la necessità di andare anche al concetto giuridico di cittadinanza sovranazionale, almeno nella dimensione di cittadinanza dell'Unione Europea. Probabilmente, accanto alle azioni concrete degli operatori di pace, uno strumento interessante da valorizzare sono le leggi regionali, che prevedono l'accesso a programmi simili al servizio civile anche di cittadini non italiani. Uno spazio nuovo da occupare, per non lasciare la scena solo ai militari.