Delle perdute virtù
Per capire che cosa abbia rappresentato storicamente l'istituto della leva obbligatoria nel nostro Paese abbiamo pensato di rivolgerci a un'autorità in materia. Virgilio Ilari è professore associato di “Storia delle istituzioni militari” presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore. La sua produzione editoriale è vastissima, compresa una monumentale “Storia del servizio militare in Italia” pubblicata qualche anno fa dal Centro Militare di Studi Strategici. Ne è emerso un colloquio interessante che, proprio per la divergenza del punto di osservazione, offriamo come spunto per il dibattito.
La leva obbligatoria non è mai stata molto amata dai giovani italiani, è sempre stata sopportata. È una questione di carattere del popolo italiano oppure, secondo lei, ci sono delle altre motivazioni?
Non sono d'accordo sull'idea che la leva non fosse “popolare” in Italia. La contestazione “ideologica” era circoscritta a determinati ambienti e ceti sociali. Ben prima del riconoscimento dell'obiezione di coscienza, già all'inizio degli anni Cinquanta, la renitenza era praticamente scomparsa. Dodici milioni di italiani hanno fatto il militare dal 1946 al 2000, e gli obiettori sono stati meno di 100.000 dal 1972 (creazione del servizio civile sostitutivo) al 1989, cioè finché l'obiezione è stata disincentivata con un allungamento di ferma (otto mesi in più). C'è voluto che scendesse in campo la Corte Costituzionale (presieduta dal cattolico Conso) per assicurare ai 2.000 enti convenzionati (per due terzi espressione del volontariato cattolico) la mano d'opera gratuita richiesta, cioè una forma di finanziamento pubblico indiretto. Tra l'altro questa “scrematura” giovava alle Forze Armate, perché eliminava i soggetti ideologicamente o socialmente refrattari al servizio militare, praticamente azzerando la contestazione nelle caserme. Quella che c'è stata l'ha fatta il personale di carriera, sempre più corporativizzato e burocratizzato. Ogni mese la partenza del contingente è stato un “plebiscito silenzioso alla nazione”. Che non sapeva che farsene.
Della crisi del servizio militare negli ultimi anni sembra che le Forze Armate si siano accorte molto in ritardo. Ad esempio, davano la colpa ai giovani che preferivano il servizio civile piuttosto che prendere provvedimenti per governare lo strumento. È giusta questa impressione oppure si è trattato di una deriva inarrestabile?
La crisi del servizio militare non è certo colpa né degli antimilitaristi, né delle mamme e tanto meno dei giovani di leva. È la conseguenza di una caduta verticale della virtù politica e militare delle classi dirigenti civili e gallonate, che hanno proiettato la loro ideologia su un Paese che non conoscevano più e non rappresentavano più. Negli ultimi dieci anni i soldati di leva sono stati trattati a pesci in faccia, come sciacquini dei pretesi professionisti, non come soldati, quando gli unici veri soldati rimasti in Italia erano proprio loro. Dieci anni fa, in un'indagine tra gli accademisti di Modena, due terzi risposero che avrebbero preferito fare gli obiettori piuttosto che i soldati semplici. Invece di sciogliere l'Accademia e mandarli a casa, pubblicarono il sondaggio sulla “Rivista Militare” per dimostrare che la leva aveva fatto il suo tempo. Certo, chi pensava e dichiarava quelle cose, non solo non era capace, ma era moralmente indegno di comandare cittadini in uniforme.
Anche il rapporto tra Forze Armate e società non è mai stato idilliaco, a detta degli stessi militari. Lei crede che la fine della leva possa contribuire a colmare questa distanza?
L'Italia ha cessato di avere un esercito perché ha cessato di esistere come Stato. La politica è stata sostituita dall'amministrazione e dalle corporazioni, incluse quelle in uniforme, abilissime a sopravvivere alla morte della patria. Mi spiego con un esempio tratto dalla storia. La Marina veneziana, che era incentrata sulla corporazione degli arsenalotti, sopravvisse 51 anni alla morte di Venezia, fino al 1805 sotto la Doppia Aquila, dal 1805 al 1814 sotto il Tricolore napoleonico e poi di nuovo sotto la Doppia Aquila, finché l'Austria tagliò la testa al toro, trasferendo tutto a Pola. È il futuro che attende quel che resta delle ex-Forze Armate italiane, declassate al ruolo di contingente di un esercito internazionale (che facciamo
finta di credere possibile nel quadro Onu o europeo, mentre vediamo dove e per conto di chi fa finta di “combattere”). Ci possiamo consolare: tutti gli Stati europei sono oggi come i “socii italici” dell'antica Repubblica Romana (III-I secolo a. C.), o come i principi tedeschi di fronte al Sacro Romano Impero: abbiamo declassato i nostri soldati ad auxilia, a simboliche coorti inviate di rincalzo alle Aquile che predano lontano. Machiavelli lo aveva detto: “chi non vuole portare le armi proprie, porta quelle altrui”. Ma non è stata certo colpa né dei soldati di leva né delle mamme e nemmeno degli antimilitaristi o dei pacifisti.
Le Forze Armate del futuro saranno costituite esclusivamente da professionisti e volontari. Ritiene che si riuscirà a raggiungere la cifra di 190.000 effettivi, come prevede la legge, oppure si dovrà rivedere questa cifra? Per qualcuno, ad esempio, ci sarebbero in Italia fin troppi generali?
Ma quali 190.000 uomini! Ma quali professionisti! Per mantenere 10.000 persone all'estero, pagate quattro volte lo stipendio dei soldati americani, abbiamo già grattato il fondo del barile. Per il resto, preferisco non entrare in particolari, ma tutto indica uno sfascio generale e irreversibile, finora ben occultato dai media e dagli aedi di una riforma militare di cui tutte le forze politiche sono ugualmente responsabili di fronte alla nazione.
In molti, anche tra i militari, non condividono la fine di un'esperienza che andava al di là del significato strettamente militare, enfatizzando il ruolo sociale e formativo. Condivide questa “nostalgia”? Con che cosa si può rimpiazzare la leva obbligatoria?
La leva può avere avuto anche una funzione sociale e formativa, ma non era questa la sua ragion d'essere. Era, nelle condizioni storiche di allora, l'unico modo in cui un Paese segnato dalla guerra civile, come l'Italia, poteva esprimere una forza armata nazionale e la sua (passata) sovranità internazionale. Nostalgia? Sì, dell'Italia che ho conosciuto e amato, dell'Italia Stato e non semplice espressione geografica, come ora è ridotta.