PONTI E NON MURI

Palestinesi nel mondo

Intervista a Mariella Tapella, missionaria laica in El Salvador dal 1986.
Giulia Ceccutti

Mariella Tapella, anima salvadoregna di Pax Christi, è coordinatrice del Servizio per le Comunità di Base (SER.CO.BA.). Le abbiamo rivolto alcune domande per conoscere meglio la comunità palestinese presente in Salvador.

Da quante persone è formata la comunità palestinese in Salvador?
Da circa 60.000 persone, ossia l’1% della popolazione. I primi si trasferirono già nel 1880. Molti provengono da Betlemme. Danno da lavorare al 40% dei salvadoregni: sono, infatti, impresari e grandi commercianti. Prima, alcuni erano proprietari del Banco Salvadoregno, che ora con la globalizzazione è stato venduto a capitale straniero, al HSBC. Anche in Honduras c’è una comunità palestinese molto numerosa.

Dove abitano principalmente?
Sia nella capitale, San Salvador, che in altre città, come Usulután, nella regione di Usulután. Il sindaco della cittá di Usulután, di cognome Handal, è un palestinese ed è del FMLN (Fronte Farabundo Martí para la Liberación Nacional). Nel 2012 ci saranno le elezioni per deputati e sindaci e il candidato sindaco di San Salvador per il FMLN sarà Jorge Shafik Handal, figlio dello storico Shafik e palestinese di Betlemme.

Quanto è percepita in Salvador la “questione israelo-palestinese”?
Già da alcuni anni qui si parla della problematica palestinese. Nel 2002, quando ci fu l’occupazione della chiesa della Natività, abbiamo fatto una preghiera fuori dall’ambasciata israeliana, e ho iniziato una raccolta di firme che abbiamo poi inviato all’allora Patriarca Latino di Gerusalemme Michel Sabbah. Da allora ho continuato a proporre il tema. Ho trovato molta accoglienza nell’ambito cristiano e, così, da quattro anni, durante la messa nella cripta della cattedrale di San Salvador, c’è sempre una preghiera e a volte anche un momento, durante l’offertorio, che ricorda la Palestina e la sua occupazione ingiusta e immorale. Tra i simboli dell’offertorio ci sono la kefia, il candelabro ebraico, la bandiera palestinese. Da quattro anni facciamo inoltre, due volte all’anno, un giorno di orazione, silenzio e digiuno nella chiesa del Rosario, a San Salvador, dove ci sono i domenicani.

In cosa consiste il tuo lavoro con le comunità di base su questo tema?
Lavoriamo con i contadini e nei villaggi per far conoscere la situazione del luogo in cui è nato Gesù. Cerchiamo di capire insieme che senso ha questa guerra. I salvadoregni non conoscono tutte le valenze storiche e politiche che stanno dietro a questo conflitto: sanno solo che sono fratelli che stanno soffrendo ingiustamente a causa delle loro terre. Dicono: “Cambia l’imperatore, ma nessuno può raccogliere dove non ha seminato”.

Raccontaci un momento particolarmente significativo.
Nel 2008, quando ci fu l’operazione “Piombo fuso” su Gaza, abbiamo fatto una marcia di protesta alla quale hanno partecipato organizzazioni della società civile, laici cattolici, luterani, anglicani, musulmani e rappresentanti dell’associazione salvadoregna-palestinese. Ci siamo fermati davanti all’ambasciata israeliana, è stato letto un comunicato, siamo andati alla sede del Parlamento centroamericano e alla rappresentanza ONU in El Salvador. Abbiamo terminato poi con un’orazione nella piazza Palestina di San Salvador. Inoltre, nella cripta, durante la messa della domenica seguente, un gruppo di danza parrocchiale ha animato l’offertorio con un ballo molto particolare: ogni donna aveva indosso le foto che rappresentavano bambini, donne e uomini morti per il massacro di Gaza. Le foto ci sono state donate dai fratelli musulmani.

E rispetto al governo, come vi muovete?
Abbiamo scritto una lettera al presidente Mauricio Funes affinché riconoscesse, come governo salvadoregno, lo stato palestinese. Abbiamo raccolto le firme anche nella cripta della cattedrale di San Salvador: hanno firmato francescani, preti, domenicani, suore e laici e anche suore di clausura. Le firme sono arrivate al presidente, e ora, da agosto 2011, il governo di El Salvador riconosce il diritto dovuto ai palestinesi di avere uno stato sovrano libero e indipendente.

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