Cooperazione civile

Viaggio negli interventi umanitari degli ultimi quindici anni: quanti e quali fondi sono previsti?
Giulio Marcon (Sbilanciamoci!)

Nel corso degli ultimi quindici anni – sicuramente a partire dalla “guerra umanitaria” in Kosovo – si è progressivamente affermata una tendenza nella politica estera e della difesa dei Pae-si impegnati in operazioni militari all’estero, al confine tra interventi di pace e operazioni di sicurezza internazionale e lotta al terrorismo: la sussunzione del civile nel militare, dell’aiuto umanitario nella strategia bellica.
Presentando operazioni bel-liche come aiuti umanitari, si è perseguito l’obiettivo di accattivarsi le opinioni pubbliche sia dei Paesi che mandano i soldati in teatri di conflitto rischiosi e imprevedibili, sia delle popolazioni locali di quei territori sperando, in questo modo, di conquistarne le simpatie e la benevolenza e di evitare di essere percepiti come occupanti e invasori.
È iniziata nel Kosovo e poi è proseguita in Afganistan e in Iraq. Si sa che la NATO si è addirittura inventata la Civil-Military Cooperation (CIMIC) incentrata sui Provincial Reconstruction Team (PRT) che hanno dato pessima prova di sé proprio in Afganistan e in Iraq. La presenza embedded dell’umanitario nel militare è stata teorizzata, a partire dagli anni Novanta, come elemento strategico del nuovo interventismo degli Stati Uniti e della NATO. Gli stessi interventi militari sono stati presentati come attività umanitarie e di cooperazione civile. A livello internazionale – in ambito OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ndr), in particolare – si è cercato di dare persino conferma contabile a questa impostazione e si è così a lungo discusso se conteggiare i soldi spesi per questo tipo di interventi (e anche per le operazioni militari tout court) nella quota di soldi APS (Aiuto Pubblico allo Sviluppo) che ogni governo destina per interventi e progetti di cooperazione.
Verso l’aiuto umanitario d’emergenza e verso le forme spurie e bastarde di cooperazione basate sulla commistione civile-militare sono state via via dirottate sempre maggiori risorse economiche a scapito della cooperazione allo sviluppo tradizionalmente intesa. In cerca di soldi e di sopravvivenza molte ONG sono cadute nella trappola e si sono asservite a un’idea di cooperazione embedded o “mordi e fuggi”, abdicando alla propria autonomia, alla propria mission e a un’elementare etica dell’attività di solidarietà.

Pochissimi soldi
Ma non solo è successo questo. È avvenuto che, per questa via, si è progressivamente messo mano –in dosi omeopatiche e nel silenzio – alla riforma dall’interno e senza alcun cambiamento normativo della cooperazione pubblica (regolata in Italia dalla Legge 49/87 e coordinata dal ministero Affari Esteri attraverso una sua direzione generale, la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo), sempre di più trasformata in qualcosa di diverso, una sorta di braccio operativo degli interventi di emergenza e delle operazioni militari all’estero dell’Italia. Per quanto riguarda la Farnesina, questo ha avuto anche una sua materiale esemplificazione con la presenza al ministero degli Esteri di militare distaccato e con uffici sempre di più occupati dal coordinamento di questo genere di interventi.
Inoltre, i pochi soldi freschi per la cooperazione pubblica sono arrivati – mentre le ultime manovre finanziarie ne azzeravano i fondi – grazie ai piccoli stanziamenti straor-dinari contenuti nei decreti di rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Ormai per fare (poca) cooperazione bisogna aspettare il periodico “decreto missioni”, perché, per le vie ordinarie, non ci sono più risorse. Per fare cooperazione, cioè, bisogna sperare che l’Italia intervenga in giro per il mondo con i suoi soldati.
A ogni modo si tratta di briciole. L’ultimo decreto missioni destina il 98,5% dei fondi previsti alla presenza militare e l’1,5% agli interventi di cooperazione. Nel caso dell’Iraq, l’ultimo “decreto missioni” parla di 6,9 milioni di euro per interventi e progetti, anche se va ricordato che sono molti di più i soldi destinati dal Trattato di partenariato e amicizia con l’Iraq del luglio del 2009, che però vanno in gran parte alle nostre imprese, tra cui l’ENI. Nel caso dell’Afganistan, i dati del 2010 parlano chiaro: per la presenza militare si sono spesi 673 milioni di euro e per le attività di cooperazione civile circa 40, tra cui una montagna di soldi per una strada di “interesse nazionale”, tra Kabul e Bayman che, dopo tanti anni di stanziamenti, risulta non ancora asfaltata per l’80% del suo percorso. (vedi “Libro Bianco 2011 sulle politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo in Italia”, www.sbilanciamoci.org). Va ricordato che i soldi dati per la cooperazione civile nell’ambito dei vari decreti per le missioni internazionali sono legati politicamente, normativamente e amministrativamente alle missioni militari sul campo. Quindi, nessuna autonomia. E fa specie come diverse piattaforme di ONG, rispetto all’ultimo decreto missioni, invece di contestare la logica e la filosofia di questa operazione ne contestino solo l’aspetto applicativo: il rischio di perdere i fondi per la lentezza dei meccanismi burocratici e amministrativi. Si tratta naturalmente di questioni importanti. Ma ce ne sono di addirittura più gravi e, tra tutti, le previsioni degli articoli 14 e 15 (poi stralciati) dell’ultimo decreto che avrebbero bloccato i contratti di cooperanti e volontari (non garantendone la copertura assicurativa e previdenziale), riformando de facto una parte importante della legge 49 del 1987.

La longa manu militare
Il fatto che i soldi della cooperazione siano ormai quelli delle missioni militari (nel triennio 2008-2011 c’è stato un taglio del 78% dei fondi della cooperazione pubblica e oggi – tolte le spese di funzionamento – sono rimasti poco più di 30 milioni per gli interventi: cioè, niente), che il “decreto missioni” metta le mani nel funzionamento della legge 49 e che la Farnesina abbia sempre di più “aiutanti militari” nei suoi uffici ci dice che, ormai, la politica pubblica di cooperazione in Italia è morta ed è diventata un piccolo strumento per accompagnare la geopolitica estera dell’Italia e le sue avventure militari in giro per il mondo.
La crisi economica ha favorito certamente la riduzione residuale dei fondi per la cooperazione (anche se in altri paesi non è successo lo stesso, o comunque non nello stesso modo), mentre l’ideologia e la politica militar-umanitaria (ma anche in questo caso non in tutti i paesi è successo) ha favorito la progressiva cooptazione della cooperazione civile nell’interventismo militare. Era quello che si era iniziato a vedere (con molti più soldi ed ambiguità) con la “guerra umanitaria” nel Kosovo e molti attori della cooperazione (tra cui una parte consistente delle ONG) si prestarono al gioco e non si resero conto del rischio che era presente in quel tipo di collaborazione. C’erano tante risorse e tante possibilità di fare progetti ed interventi. In Iraq l’operazione fu ancora più esplicita, tanto è vero che una parte del mondo non governativo – anche italiano – se ne rese finalmente conto e decise di starne fuori. Oggi siamo arrivati -per l’Italia- ad un punto conclusivo di una parabola che ci consegna la morte delle politiche pubbliche italiane di cooperazione allo sviluppo e la crisi politica e culturale delle ONG. Da questa crisi si tratta di ripartire per cambiare il paradigma della cooperazione e la legge 49 del 1987, rimettendo al centro l’autonomia dei soggetti della solidarietà internazionale e separando, senza se e senza ma, il civile dal militare.

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