Missione UNIFIL

La presenza internazionale in Libano: ingerenza umanitaria o peacekeeping?
Giuseppe Cassini (già Ambasciatore d’Italia in Libano)

Il giorno prima di ritirarsi dal sud del Libano, nella guerra dell’estate 2006 costata 1100 morti e 4000 feriti, l’aviazione israeliana sganciò a bassa quota un intero stock di bombe a grappolo sui campi e gli uliveti già martoriati dai bombardamenti. Le bombe a grappolo funzionano così: roteando nell’aria, i contenitori si aprono e lasciano fuoruscire centinaia di piccole bombe; alcune esplodono subito, mentre altre sono fabbricate apposta per depositarsi dolcemente sul terreno o sugli alberi, dove rimarranno per anni ad attendere il passaggio di un malcapitato.
Arrivando sul posto con i “caschi blu” dell’Onu, le vedemmo anche noi quelle specie di palle pendere dagli alberi come strenne natalizie. Dopo i primi incidenti – soprattutto bambini mutilati o uccisi – i contadini corsero a chiedere agli artificieri dell’UNIFIL di bonificare i campi: una lotta contro il tempo per non perdere il raccolto delle olive. Ancora oggi i libanesi ricordano con pari gratitudine sia i milioni di dollari donati dai Paesi del Golfo (Iran, Qatar, Emirati, Arabia Saudita) sia la solerzia dei “caschi blu” nel bonificare i terreni minati, colmare le voragini in centinaia di strade, riparare gli 80 ponti fatti saltare dalle forze israeliane.

OSSIMORI
Tutte le missioni di pace espletate sotto bandiera Onu o altra bandiera multilaterale nascono “a fin di bene”. La comunità internazionale ama definirle operazioni di “ingerenza umanitaria”. Due parole che, però, costituiscono un ossimoro: ingerenza è un termine negativo collegato a uno positivo (umanitaria). E come in ogni ossimoro, si galleggia nell’ambiguità. Intanto, perché non c’è missione di peacekeeping senza che vi partecipino dei “capifila” (potenze ex-coloniali o altro) per i quali l’intervento-soccorso risponde a un misto di afflato umanitario e di interessi strategici. Poi perché non c’è missione che non provochi guai causati dalla presenza di tanti operatori stranieri: inflazione, corruzione, intrusione nei costumi locali, eccetera.
Difficile evitare la “tentazione del bene” e i suoi effetti indesiderati. Ben si sa quanto può irritare una vecchietta il boy-scout che la costringe ad attraversare la strada pur di compiere la sua buona azione quotidiana – soprattutto se poi lui se ne va lasciandola persa sul marciapiede sbagliato.
Quali, dunque, le condizioni per garantire il successo di una missione? Almeno tre:
1. Legittimazione internazionale: condizione necessaria ma non sufficiente.
2. Largo consenso delle popolazioni locali, e non solo di qualcuna a scapito di altre.
3. Operatori militari e civili attrezzati culturalmente a lavorare in quell’area.
La missione dell’UNIFIL, a differenza di altre, è una lunga storia di successo proprio in quanto risponde a tutte le tre condizioni. La zona d’operazione – Libano sud al confine con Israele – è abitata al 90% da sciiti, in stragrande maggioranza simpatizzanti del partito Hezbollah (religioso) o Amal (laico).
È bastato, perciò, stringere con i leader sciiti locali un patto tacito ma chiaro: “Primo, siamo qui perché a voi sta bene così; secondo, quando non ci volete più fatecelo sapere per tempo, civilmente, non a suon di bombe”.
Patti chiari, amicizia lunga. Una convivenza, infatti, che dura dal 1978 senza alcuno scontro a fuoco con i miliziani sciiti. A parte gli incidenti di strada o di elicottero, le sole perdite subite dai “caschi blu” sono state opera dell’aviazione israeliana (accanitasi più volte contro le postazioni UNIFIL); e – più di recente – per mano della jihad sunnita incitata in un paio di campi profughi palestinesi. Da aggiungere, però, che i jihadisti sunniti perseguono ben altro fine: quello di umiliare Hezbollah dimostrando che non ha sul territorio tutto il controllo che sostiene di avere; il che fa parte dell’eterna lotta fratricida tra sunniti e sciiti.
In tanti anni laggiù non ho personalmente mai incontrato nessuno che fosse contrario alla presenza di UNIFIL. E un motivo ci sarà se, in oltre trent’anni di permanenza, gli unici caduti italiani perirono in un incidente d’elicottero, mentre in Iraq ne morirono 19 dopo soli sei mesi sul posto. Se però Israele o gli Stati Uniti attaccassero l’Iran, converrebbe evacuare tutti in gran fretta: tale il messaggio che ricevetti io stesso dai più alti gradi di Hezbollah, perché in quel frangente neppure il loro leader supremo, Nasrallah, saprebbe garantire l’incolumità dei “caschi blu”.

Effetti collaterali
Un’ultima questione, infine. È da considerarsi normale che una missione di peacekeeping duri tanti decenni? Evidentemente no, vuol dire che la pacificazione della regione è di là da venire. Anzi, sono sopraggiunte novità che non lasciano sperare nulla di buono.
La risoluzione 1701 dell’Onu – votata l’11 agosto 2006 per far tacere le armi – ha consentito all’UNIFIL di triplicare i suoi effettivi, da 4000 a 12.000 fra militari e civili. Se ad essi si aggiungono le forze armate libanesi (fino allora tenute fuori dall’area di crisi) e i miliziani di Hezbollah (che in principio avrebbero dovuto smobilitare), nel sud del Libano si conta un armato ogni sette abitanti.
La risoluzione 1701 stabiliva che quell’area doveva essere evacuata da ogni arma al di fuori di quelle in dotazione all’esercito libanese o ai “caschi blu”. Ovvero disarmare Hezbollah. Era un’opzione praticabile? Forse sì, se gli Stati Uniti avessero attrezzato e addestrato l’esercito libanese (totalmente imbelle) con quel tanto di armamenti da poter ragionevolmente affrontare la potenza di fuoco del vicino israeliano, che da decenni invade il Libano e tuttora ne sorvola i cieli ogni giorno con i suoi caccia armati di missili puntati su qualsiasi obiettivo, civile o militare che sia. Hezbollah, dunque, ritenendosi l’unica forza in grado di “tenere a bada” Israele, si rifiuta di ottemperare a quel dispositivo della risoluzione Onu. Perché forse Nasrallah – che ricordo come persona dotata di un certo umorismo – conoscerà anche lui quella “massima biblica” rivisitata da Woody Allen: “Il leone e il vitello giaceranno insieme, ma il vitello dormirà ben poco”.

Ultimo numero

Rigenerare l'abitare
MARZO 2020

Rigenerare l'abitare

Dal Mediterraneo, luogo di incontro
tra Chiese e paesi perché
il nostro mare sia un cortile di pace,
all'Economia, focus di un dossier,
realizzato in collaborazione
con la Fondazione finanza etica.
Mosaico di paceMosaico di paceMosaico di pace

articoli correlati

    Realizzato da Off.ed comunicazione con PhPeace 2.7.15