Dieci anni dopo

Nonostante gli ingenti investimenti militari, in Afghanistan le condizioni di vita della gente non migliorano. Eppure sono passati dieci anni da quando le forze internazionali sono nel Paese.
Emanuele Giordana e Gianni Rufini

A dieci anni dall’avvio dell’intervento internazionale e a poco più di due anni dal previsto ritiro delle forze militari della coalizione, la crisi afgana non sembra aver trovato il necessario punto di equilibrio tra sicurezza, qualità della vita e stabilità politica. L’evoluzione della crisi, nell’ultimo anno, non ha portato a significativi progressi sul piano del miglioramento degli standard di vita delle comunità e nello sviluppo dei diritti umani e civili nel Paese. Una modesta evoluzione positiva si è avuta sul piano economico, con un leggero miglioramento negli indicatori di sviluppo sociale (l’Indice di Sviluppo Umano è passato dallo 0,307 del 2005 allo 0,349 del 2010, collocando l’Afghanistan al 155° posto su 169 Pae-si). Questi miglioramenti hanno avuto un impatto pressoché impercettibile per la popolazione, mentre gli aspetti legati alla sicurezza, al rapporto con l’amministrazione, alla corruzione e allo sviluppo dei diritti civili hanno segnato un marcato peggioramento.

Le condizioni di vita
L’Afghanistan presenta degli indicatori di qualità della vita incomprensibilmente bassi per un Paese che, da undici anni, è controllato dalla comunità internazionale, con investimenti finanziari significativi anche se concentrati soprattutto sul capitolo militare. L’aspettativa di vita è ferma a 43 anni, gli stessi livelli dei periodi peggiori della storia del Paese. I tassi di mortalità neonatale, infantile e materna sono tra i più alti al mondo, il tasso di vaccinazione è tra i più bassi. Il livello di accesso all’acqua potabile (13%) o all’elettricità (20%) è paragonabile a quello dei più svantaggiati Paesi africani. Il 36% della popolazione vive sotto la linea di povertà, con un altro 20% appena al di sopra di tale linea. Anche con gli sforzi della comunità internazionale si siano concentrati soprattutto sull’istruzione, un settore ad alto valore simbolico e con una ricaduta importante per lo sviluppo, l’accesso alle scuole è ancora al 52%, con un tasso di alfabetizzazione del 26%. Nonostante un lieve miglioramento, l’accesso e la qualità dei servizi sanitari rimangono criticamente bassi. Il 57,4% della popolazione vive a circa un’ora di cammino dalla struttura sanitaria più vicina.
La popolazione femminile vive ancora in condizioni di forte discriminazione, vittima di emarginazione e violenze. Un indicatore significativo dell’attuale qualità della vita nel Paese è costituito da un duplice fenomeno: mentre si è fermato negli ultimi due anni il flusso dei returnees (i rifugiati che rientrano), è cresciuto il numero degli emigranti economici che lasciano il Paese in cerca di opportunità. Il 2011 si è aperto con il trascinarsi della crisi politica aperta dalle elezioni del 2010, che ha ulteriormente indebolito l’autorevolezza del governo Karzai. Alcuni passi avanti si sono avuti nei rapporti con il Pakistan e con la decisione di creare una “jirga” di dialogo tra i due Paesi. Tra i fattori positivi anche la drastica riduzione del numero di vittime civili attribuite a ISAF e la ripresa di attività di UNAMA (l’United Nations Assistance Mission to Afghanistan, la missione delle Nazioni Unite nel Paese) dopo la nomina a rappresentante speciale di Staffan De Mistura, in sostituzione del discusso Karl Eide.
Un altro segno positivo è stata la decisione annunciata da Richard Barrett – coordinatore dell’Al Qaeda and Taliban UN Security Council Sanctions Committee’s Monitoring Team – di rimuovere oltre 138 nomi di talebani dalla cosiddetta blacklist del Comitato: un segnale di apertura di un dialogo con l’insorgenza. Purtroppo, sul fronte dello sviluppo economico e su quello della sicurezza le cose non vanno bene. Benché l’economia afgana sia cresciuta del 20% annuo a partire dal 2002, la componente finanziata dall’aiuto internazionale è cresciuta dal 32% del 2002 al 42% del 2008. L’afflusso massiccio di finanziamenti ha alimentato la corruzione e accresciuto la dipendenza (e quindi la vulnerabilità) del Paese, esponendolo al rischio di una grave crisi economica nel caso di una riduzione significativa degli aiuti. Inoltre, i meccanismi di allocazione degli aiuti stessi (in gran parte attraverso appalti internazionali, spesso gestiti dalla forza militare) non hanno contribuito a creare le condizioni per un’economia sostenibile e un’autonoma capacità di gestione della spesa.

Il bilancio dell’aiuto esterno
Per quanto significativo, il volume di aiuti internazionali è lontano dagli impegni previsti dagli accordi internazionali. Soprattutto, si evidenzia una distanza significativa tra promesse fatte e fondi effettivamente erogati. Come denunciato da ACBAR, nel periodo 2002-2008 l’Asian Development Bank (ADB) e l’India hanno allocato solamente un terzo dei finanziamenti promessi; gli Stati Uniti solo il 50% dei 10,4 miliardi di dollari inizialmente impegnati; la Banca Mondiale poco di più. La Commissione Europea ha finanziato effettivamente due terzi degli 1,7 miliardi assegnati al Paese. Dei 39 miliardi di dollari complessivamente promessi dai donatori per il periodo 2002-2011, nel 2009 era stato speso solo il 40%.
In un’analisi del periodo 2001-2009 risulta che i donatori hanno speso complessivamente 36 miliardi di dollari, a fronte dei 62 promessi. Gli Stati Uniti sono stati il primo donatore, con 23,4 miliardi. Dopo un considerevole aumento avvenuto a partire dal 2005, la quota di aiuto pro capite è stata di 1.241 dollari, mantenendosi molto al di sotto dei casi di Iraq e Bosnia. Metà degli aiuti sono stati gestiti dalle forze militari straniere, soprattutto nell’ambito del Commanders Emergency Response Programme destinato alle “spese tattiche”, mentre solo il 23% è stato gestito dal governo afgano.
Il problema della gestione militare degli aiuti è stato più volte sollevato, in maniera molto critica, dalle organizzazioni umanitarie e di sviluppo. Questa forma di aiuto si concretizza nei Provincial Reconstruction Teams (PRT), gruppi misti civili-militari (o, in alcuni casi, esclusivamente militari) che inizialmente dovevano essere impiegati per la distribuzione di assistenza umanitaria in aree ad alta pericolosità dove le organizzazioni civili non avevano accesso. Nel corso degli anni, queste formazioni si sono gradualmente trasformate in “vetrina” dell’impegno dei Paesi della coalizione e in strumenti della cosiddetta strategia del “winning hearts and minds” (conquistare i cuori e le menti), finalizzata a creare consenso verso le forze internazionali nella popolazione afgana.
Svincolati da obblighi di accountability, coordinamento con le altre agenzie d’aiuto, standard di qualità e logiche di efficienza, i PRT hanno anche elevato il livello di rischio per le agenzie civili, creando confusione tra ruoli militari e ruoli umanitari e “marchiando” politicamente buona parte delle attività d’aiuto, a danno della supposta indipendenza e neutralità dell’aiuto umanitario.
Oltre metà della spesa è stata concentrata nel settore della sicurezza (19 miliardi di dollari), particolarmente nel rafforzamento della polizia e delle Forze Armate. La sanità ha ricevuto solo il 6%, l’istruzione il 9% e lo sviluppo rurale il 36%. Nel frattempo, è aumentato il livello di incidenza degli aiuti pubblici allo sviluppo (APS) internazionali sul PIL, accrescendo la dipendenza del Paese da questa fonte di finanziamento.
Un’utile indicazione su come stiano andando le cose e su quali siano eventuali aree prioritarie di intervento potrebbe venire dall’analisi approfondita di cosa sta succedendo, in termini di sicurezza e sviluppo, nelle diverse province afgane, correlandolo al tipo di impegni finanziari e di approcci adottati per le missioni militari e civili. È forse ovvio, ma giova ripeterlo: lo sviluppo e la sicurezza sono dimensioni intessute e imbevute della specificità dei differenti contesti locali, che sono determinanti nello spiegare risultati attesi o inaspettati. Lo stesso tipo di intervento in due contesti parzialmente differenti può produrre risultati ben diversi.

Note

Emanuele Giordana, cofondatore di Lettera22, è condirettore del quotidiano ecologia Terra, è tra i promotori dell’iniziativa “Afgana”.

Gianni Rufini, è direttore di ricerca per il CeSPI e coordinatore di corsi presso le Università di Firenze e di Milano, nonché per l’ISPI.

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    Gianni Rufini, è direttore di ricerca per il CeSPI e coordinatore di corsi presso le Università di Firenze e di Milano, nonché per l’ISPI.
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