DONNE

Morti bianche

L’incidente di Barletta e la morte delle 5 giovani lavoratrici apre il sipario su un triste capitolo: la scarsa sicurezza sul lavoro e la dignità della gente.
Valeria Fedeli (Vice segretaria generale Filctem Cgil, presidente del sindacato europeo tessile)

Barletta 6 ottobre. Il funerale di Maria, Matilde, Tina, Antonella, Giovanna sta per terminare. Due ore di forte partecipazione, di intenso silenzio rotto a tratti dalle lacrime dei familiari e dallo straziante gesto della piccola figlia di un’operaia che sventolava la foto della mamma sulla bara che la conteneva.
D’improvviso si alzano dalla piazza cartelli che chiedono rispetto, dignità. Un grande striscione delle operaie calzaturiere che sono uscite dalla fabbrica per esserci tutte all’ultimo saluto alle loro amiche operaie. Dalle finestre si srotolano due manifesti con scritto: “Ora vogliamo la verità! Muore chi fa il suo dovere per chi non ha mai fatto il suo!”.
Scatta tutta la piazza con un applauso forte, profondo, lungo: sembra non voler finire mai.
Si sente la rabbia, l’indignazione per quelle morti che non si accettano.

Giovani donne
Sono morte delle donne a Barletta. Sono morte giovani donne. Sono morte mentre lavoravano. Sono morte giovani operaie che lavoravano senza standard di sicurezza e di legalità, senza contratto e sottopagate.
Sono morte delle speranze per il futuro dell’Italia. Speranze che lottavano e faticavano per una vita decente, che volevano un lavoro dignitoso e una vita più decente, umana, civile, rispettata. Erano lì, nello scantinato, sognando un futuro differente che il lutto ha bruscamente interrotto.
Mi occupo di lavoro, da sindacalista, da molti anni. Non ci si abitua mai alle morti bianche, non c’è volta che le lacrime, l’indignazione, la rabbia, la tristezza non scoppino devastanti.
L’esperienza, la mia e quella di chi mi ha preceduto nella lunga sfida della rappresentanza del lavoro e del lavoro delle donne, mi ha insegnato, però, che lacrime, indignazione, rabbia e tristezza possono e devono accompagnarsi alla voglia di reagire, all’azione, alla responsabilità. A stare in campo per il cambiamento. Alla forza e al desiderio di questa responsabilità per cambiare il presente, che proprio le donne sanno tirare fuori nei momenti più difficili.
Erano delle operaie tessili, le ragazze schiacciate dal crollo del palazzo a Barletta, come operaie tessili erano quelle da cui è partita la lotta del movimento sindacale femminile.
Sono passati più di cento anni dal famoso incendio che a Chicago uccise lavoratrici, in sciopero, bloccate nella fabbrica chiusa dal padrone.
Dopo cento anni, qui in Italia, nel mondo considerato ricco e produttivo, sembra che siamo ancora fermi. Ancora le condizioni di vita e di lavoro delle donne – e, a dire il vero, anche degli uomini – sono precarie, a rischio, spesso sotto ogni livello minimo di decenza e di legalità.
Le condizioni di lavoro, inaccettabili, come quelle delle operaie morte, e le condizioni di vita, come quelle della figlia dei titolari del maglificio, scomparsa anche lei a soli 14 anni, sono drammaticamente il simbolo dell’Italia che questa classe dirigente che governa il Paese non vede, non ascolta, a cui non dedica politiche e scelte positive. A cui non viene dato rispetto, speranza, futuro.
Ci hanno lasciato persone che vivevano e lavoravano in un palazzo pericolante, persone inascoltate nelle loro paure e nelle loro richieste, abbandonate.

Trasparenza e legalità
Conosco bene la realtà di vita e di lavoro di tante donne come quelle che ci hanno lasciato. In Puglia, nel Sud, abbiamo tanto combattuto e lavorato contro queste condizioni. Un lavoro frammentato, non riconosciuto, non valorizzato. Filiere di produzione senza trasparenza e legalità, con la catena di produzione polverizzata in tanti spezzoni, purtroppo non sempre rispettosi della legge.
Quelle lavoratrici non avevano un contratto. La loro paga, per un lavoro faticoso e difficile, era tremendamente bassa e ingiusta. Il posto di lavoro non garantiva condizioni e procedure di sicurezza.
Ma che Paese siamo? E, almeno questa volta, la risposta non può essere la crisi. Non c’è crisi che tenga rispetto allo scenario descritto. Di lavoratrici e lavoratori che, come quelle operaie, faticano senza veder riconosciuta la loro dignità e i loro diritti, rischiano la vita lavorando, ce ne sono tante, troppi.
E forse si può pensare che sia stato un incidente, ma è sicuramente anche il tremendo segno di un sistema che ha troppe fragilità, incurie, irresponsabilità; e in cui pagano sempre gli stessi.
Eppure siamo un Paese migliore di questo, viene da dire usando una frase retorica. Ma la retorica si spegne davanti al lutto. Qui abbiamo bisogno di un minuto di silenzio!
Siamo un Paese che non funziona. Un Paese che tollera l’illegalità, o che non riesce a contrastarla efficacemente. Un Paese che non riesce a superare le differenze territoriali, con il Sud troppo spesso trattato come la terra dove tutto si può fare, in cancellazione di regole, rispetto, umanità. Un Paese che non offre possibilità ai giovani, con un atto di miopia nei confronti del proprio futuro.
Un Paese che non rispetta e non valorizza le donne, come il movimento nato il 13 febbraio ha, in questi mesi, portato all’attenzione di tutti.
Dovremmo e vorremmo essere un Paese migliore, sì. Ma non lo diventeremo senza una fortissima azione di cambiamento, senza riforme che restituiscano stabilità e giustizia al sistema, senza uno sforzo politico che rompa finalmente la stasi in cui siamo piombati.
Ma c’è di più. Un Paese che non ha un governo che rappresenta e contribuisce a una forte e diffusa cultura e pratica della legalità, del rispetto delle regole, mina alla radice la possibilità di avere politiche di crescita efficaci, di avere sviluppo e condizioni per uscire dalla crisi che viviamo.
Serve un’etica nell’esercizio delle funzioni pubbliche, istituzionali, di rappresentanza. Serve onestà! Servono leggi e comportamenti che costruiscano trasparenza e tracciabilità di ogni processo economico, produttivo, monetario.
La legalità è il presupposto, la precondizione per dare certezza e libertà agli stessi investimenti delle imprese regolari e dignità nel lavoro e nella vita di tutti.
La legalità è un diritto della cittadinanza democratica, è condizione per i territori di convivenza civile e democratica, di solidarietà e coesione delle comunità.
Ciascun soggetto che ha responsabilità, ciascuno di noi, deve essere consapevole della portata innovativa e di svolta che il contrasto a ogni forma di illegalità ha per far rinascere il nostro Paese.
Questa forte battaglia culturale, politica, etica, economica, riguarda tutti e riguarda tutto il Paese.
Donne e lavoro, giovani e Sud. È da loro che dobbiamo ripartire, è nella forza tenuta costretta dalla fatica del sopravvivere che l’Italia può riscoprire il futuro.
Sono addolorata al pensiero che, da oggi, il nostro futuro dovrà fare a meno dell’energia, dei sorrisi, dell’intelligenza, delle emozioni di cinque giovani donne. Ma l’energia che avevano, i loro sorrisi, l’intelligenza e le emozioni che non potranno più unire alle nostre devono accompagnarci, devono essere un pezzo della forza che ci serve per cambiare l’Italia.
Anche per loro continueremo a lottare e a servire questo Paese che abitiamo.
Donne e lavoro, giovani e Sud. È da loro che dobbiamo ripartire, è nella forza derivante dalla fatica del sopravvivere che l’Italia può riscoprire il futuro.

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