DISCRIMINAZIONI

Vita da zingari

Proseguono gli sgomberi dei campi rom. A Roma, ma non solo. E sono, invece, pur sempre persone.
Cristina Mattiello

“Questi uomini, donne e bambini, nei prossimi giorni, saranno sgomberati da un insediamento informale di Roma in virtù di una decisione del Comune. Siete pronti a offrire loro solidarietà e sostenerci in un’azione che stiamo preparando per opporci a questo sgombero forzato? In tutto saranno circa 40 i rom coinvolti nello sgombero, tra cui oltre 10 bambini e neonati. Il Comune non ha avviato alcuna consultazione con le famiglie né ha fornito alcuna soluzione alternativa. Pertanto, in base a quanto stabilito dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite, lo sgombero forzato è da considerarsi illegale. L’Associazione 21 luglio ha già scritto al Dipartimento

Politiche Sociali del Comune di Roma per chiedere di bloccare lo sgombero. Vi terremo informati sulle azioni che stiamo per mettere in campo. Grazie per il vostro sostegno. Associazione 21 luglio” (6/7/14).

Non passa settimana, a volte giorno che non si registra a Roma uno sgombero “senza prospettive”. Vale a dire che quelle persone, anche anziani, anche malati, anche bambini, dormiranno da allora in strada. Spesso non avranno avuto neanche la possibilità di prendere i loro effetti personali. Come sei rom che vivevano in una roulotte non lontano da Trastevere: tornati a casa, in un giorno di fine giugno, non hanno – semplicemente – trovato più nulla. Tutto sequestrato: roulotte, beni personali, documenti! E certamente da soli non hanno la forza e la possibilità di riavere qualcosa indietro.

È ormai in atto una vera e propria “guerra contro i poveri”, che coinvolge le amministrazioni locali al centro, al nord, al sud, ma che viene anche dall’alto: il “Decreto Lupi” sulla casa vieta l’allaccio di acqua e luce agli spazi “occupati” e anche la concessione della residenza, che porta con sé l’assistenza sanitaria. 

Solo a Roma si prevedono altre svariate migliaia di senzatetto. Una guerra condotta in nome del “decoro”, della “legalità”, della “sicurezza”: parole che dovrebbero, invece, significare dignità e bisogni essenziali garantiti per tutti.

Vittime privilegiate i rom. Ancora i rom. No, non cambia la politica nei loro confronti. Nonostante i ripetuti rimproveri ufficiali degli organismi dell’EU per i diritti e gli appelli-condanna di Amnesty. L’amara delusione di chi si aspettava uno spiraglio e la possibilità di avviare un percorso diverso, virtuoso, non cede però allo sconforto e le associazioni di solidarietà sono sempre pronte ad aiutare concretamente, sul campo, per quanto si può, e tentano contemporaneamente la via legale delle denunce, anche in sede europea, e quella politica delle richieste alle istituzioni: “stop agli sgomberi” e apertura di un tavolo con i rom stessi per avviare percorsi veri di inclusione. Fondamentale è capire e

far capire che la facile giustificazione “ma non ci sono i soldi per dare la casa a tutti” nasconde ipocritamente una realtà ben diversa (come accade nel campo dell’accoglienza ai migranti). Lo studio condotto in questi anni a Roma dall’Associazione 21 luglio ha dato risultati sconvolgenti, dimostrando che “discriminare costa”: milioni di euro spesi per reprimere, ghettizzare, emarginare, alimentare la spirale del degrado e della disperazione sociale. E quasi nulla per migliorare veramente la condizione di vita – casa, scuola, lavoro – delle comunità rom. È quasi difficile crederci. Ma sono dati ufficiali dei bilanci. E la situazione è generalizzabile in Italia.

È, quindi, una scelta precisa, forse per molti perfino non del tutto consapevole, quella della discriminazione. L’Italia è nota in Europa come “il Paese dei campi”. Il primo fu costruito nel 1994 a Roma e fu denominato “campo nomadi” in base all’assunto del tutto sbagliato che quelle comunità non fossero stanziali, mentre il 90% di loro, in Europa, vive stabilmente in case e in Italia, di 170.000 persone, solo 40.000 vivono nei campi. Con i rom l’immaginario conta più del dato reale. È quindi l’intero sistema culturale su cui poggia tutta questa violenza che va smontato per inventare un nuovo approccio fondato su diritti e solidarietà. Superare la logica dell’“emergenza” per avviare percorsi di reale inclusione sociale e abitativa, aiutando a costruire un futuro: con programmi individualizzati concordati famiglia per famiglia si può affrontare la questione della casa – case popolari, da cui attualmente i rom, in varie città, sono esclusi, su basi etniche come nelle leggi razziali! – o contributi, anche temporanei, per l’affitto, o autorecupero di immobili dismessi, o sistemazioni in ambito rurale, ecc..

Si dovrebbe poi puntare sulla scolarizzazione e sulla formazione, che fanno registrare livelli catastrofici, e offrire borse di lavoro o lavoro stesso. In molti casi si potrebbe pensare a forme di microcredito da restituire nel tempo per consentire l’avvio di attività.

Da parte loro, le comunità rom e sinte stanno sempre più cercando di intervenire nei campi con programmi che tolgano gli adolescenti e i giovani dal circolo vizioso apatia-mancanza di lavoro, che può sfociare anche nella microcriminalità. Il corso di formazione per attivisti rom e sinti, organizzato dall’Associazione 21 luglio e dal Centro Europeo per i Diritti dei Rom (ERRC) e il progetto “Fuochi attivi” della Fondazione Romanì cercano di sviluppare nelle nuove generazioni consapevolezza di sé, del proprio essere rom e soprattutto dei diritti. Molte reti di solidarietà, miste rom e “gagé” (non rom), sono attive nelle situazioni locali e costituiscono un’importante occasione di crescita e scambio.

Alcuni organismi interni al mondo rom e sinti ritengono invece che un primo passo potrebbe essere ottenere lo status di “minoranza linguistica”, riconoscendo il Romanés, lingua trasversale rom sinti, anche se con molte varianti locali, come lingua “ufficiale”: questo comporterebbe l’acquisizione di molti altri diritti e offrirebbe una tutela globale.

Le vie, insomma, potrebbero esser molte, e sono da studiare. Ma una cosa è certa: bisogna cambiare radicalmente la politica attuale. Perché l’emarginazione di queste comunità è una scelta nostra.

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